Vicki riprese, in mezzo al frastuono: — Hai detto a Cazie che tu avevi due terzi delle azioni della TenTech, le tue e quelle di tua sorella. Potresti far cadere le accuse.
— Perché mai dovrei farlo?
Lei si limitò a indicargli tutto quello che aveva attorno: il bambino, la stanza fredda, i Vivi laceri, le discussioni, i poliziotti che lui intuiva dietro la parete di persone biologicamente inattaccabili da malattie e fame ma non dal freddo, dalla violenza o dall’avidità di altra gente. All’improvviso Jackson pensò a Ellie Lester che riteneva i nativi, elementi di seconda classe, schiavi "Vivi" molto divertenti e la mancanza di potere una cosa buffa, a differenza di Cazie invece, che la considerava soltanto noiosa.
— Sì — disse. — Farò cadere le accuse.
— Sì — fece eco Vicki e smise di sorridere, socchiudendo gli occhi e osservandolo accuratamente, come se si stesse chiedendo quale uso avrebbe potuto fare di lui.
4
"Oggi" pensò Theresa. "Oggi è il gran giorno."
Stesa nel letto la mattina presto, avvertì la familiare nuvola nera calarle sulla mente. Pesante, nauseante, senza speranza. "Il cane nero che non molla mai" lo aveva chiamato qualcuno nei tempi antichi. "Gli oscuri boschi di cui la morte è appena più amara". Quello era "Dante": ricordava quel nome. "La bestia che consuma il cervello". Quello invece non lo ricordava. Thomas, il suo sistema personale, le aveva trovato le citazioni in qualche database, e Theresa non riusciva più a dimenticarle. Cani, bestie, boschi, nuvole: aveva vissuto così a lungo con l’oscurità che non aveva più bisogno di darle un nome, anche se ne aveva a disposizione a volontà. Come la stessa paura.
Quel giorno, però, la paura nauseante non l’avrebbe fermata. Lei non le avrebbe "permesso" di fermarla. Quello era il gran giorno.
— Prendi un neurofarmaco — la incalzava sempre Jackson. — Posso prescriverti… Tessie, è uno squilibrio nella chimica cerebrale. Non è diverso dal diabete o dall’anemia. Si regola la chimica. Si "aggiusta". — E Theresa non trovava mai le parole per farlo capire.
Perché le parole non erano importanti, lo era l’azione. Lei lo aveva compreso solo da poco. Quando se n’era resa conto, si era sentita assalire da una profonda vergogna. Come aveva fatto a essere così indulgente con se stessa, così piagnucolante verso la sua stessa debolezza d’anima? Era passato oltre un anno dall’ultima volta che aveva lasciato l’appartamento, e non era mai uscita dall’Enclave di Manhattan Est. Mai, in tutta la sua vita. Non c’era da meravigliarsi che fosse ciò che Jackson definiva "clinicamente depressa".
"Oggi."
Jackson era andato con Cazie, molto presto, per controllare uno stabilimento da qualche parte. Theresa lo aveva sentito uscire. Si sentiva a disagio tutte le volte che lui lasciava l’appartamento, ma cercava strenuamente di non farglielo capire. Non sarebbe stato corretto. Jackson restava già anche troppo in casa per lei. Vegliava su di lei, si preoccupava per lei. "Posso prescriverti"… Si preoccupava per lei ma non capiva. Lui non capiva che cosa fosse realmente ciò che chiamava "squilibrio della chimica cerebrale". Soltanto Theresa sapeva cosa fosse davvero.
Era un dono. Il modo della sua anima di dirle che avrebbe fatto meglio a cambiare abitudini e a fare attenzione a quello che era realmente importante.
Theresa tirò giù i piedi dal bordo del letto e aspettò che l’ansia quotidiana recedesse. Se se lo concedeva, poteva restare a letto tutto il giorno. Era così sicuro lì. Invece si incamminò verso la doccia sonar, si lavò per trenta secondi e ne uscì. Nella camera da letto colse un’occhiata di sé, nuda, nel lungo specchio sulla parete a ovest e si fermò.
Non "assomigliava" nemmeno a tutti gli altri. Il suo corpo era bello, immaginava. Tutti erano belli. Ma in qualche modo lei pareva… non essere lì. Capelli e occhi pallidi, volto pallido e piccolo, pelle pallida. Ma che cosa avevano avuto in mente i suoi genitori? Una fatina. Un fantasma. Un ologramma privo di sostanza, sfuocato ai margini. Non c’era da meravigliarsi se lei non si sentiva mai di appartenere a nessun posto, se non conosceva nessuna persona che potesse comprendere la sua lotta per quello che essa era. Nemmeno Jackson, per quanto fosse un fratello amorevole.
Perfino Jackson pensava che Theresa fosse nata male, che fosse stata danneggiata, non si sa come, durante la modificazione genetica in vitro. Perfino Jackson non riusciva a comprendere la natura del dono che era stato conferito a Theresa: perché era un dono, indipendentemente da quello che dicevano tutti. Il dolore lo era sempre.
Il dolore significava che bisognava cambiare qualcosa, che bisognava imparare a pensare al mondo in modo differente. I semi provavano un dolore tremendo quando, immaginava Theresa, facevano scoppiare il rivestimento nella terra fredda e scura e cominciavano a spingersi alla cieca verso una luce che non avevano mai visto. Il dolore era ciò che faceva crescere. Nessuno sembrava capirlo. Tutti quelli che conosceva, non appena provavano dolore, facevano il possibile per mandarlo via. Medicine. Droghe ricreative. Sesso. Feste frenetiche. Alla fine, si trattava sempre della stessa cosa: distrazioni dal dolore. Come era possibile che nessun altro in quel secolo la pensasse così? Soltanto lei.
— Ogni ambiente premia profili di personalità diversi — le aveva detto una volta Jackson nel modo pacato e attento di parlare con lei. — Il nostro premia la vivacità, l’aggressività accoppiata con l’indifferenza apparente, una certa crudeltà distratta. Tu non sei così, Tess. Sei un tipo di persona differente. Non peggiore, soltanto differente. Va bene essere differenti.
Già, era vero, ma solo perché lei era giunta a credere che la sua differenza aveva un "senso". La nuvola nera nel cervello, la paura di ogni novità, gli attacchi di ansia così forti che a volte non la facevano respirare: il loro senso era di far rompere a Theresa il suo guscio di pigrizia e di spingerla alla cieca verso la luce. Ci credeva, anche se non l’aveva mai vista e non sapeva esattamente verso cosa si stesse spingendo, anche se a volte disperava dell’esistenza della luce. Pure quello era parte del dono: le faceva esaminare attentamente tutto quello che le accadeva attorno, nel caso in cui le sfuggisse una chiave essenziale per quello che avrebbe fatto in seguito.
Non aveva confidato a Jackson quel pensiero: si preoccupava già troppo per lei e non avrebbe capito comunque. Era davvero buffo: Jackson era quello intelligente, Theresa quella la cui modificazione del QI non era riuscita del tutto. Jackson però non capiva, anche se aveva ragione sul discorso delle diverse personalità premiate in culture differenti, che non era andato fino in fondo nell’analisi di quell’idea.
Theresa sì: aveva passato migliaia di ore al terminale, inviando lentamente e faticosamente Thomas alla ricerca attraverso i database storici. Alla fine aveva trovato il luogo che avrebbe premiato ciò che lei era: l’Età della Fede.
Sarebbe dovuta nascere cattolica: nel tardo Medio Evo, quando uomini e donne erano stati onorati per avere dedicato le loro vite al dolore e al servizio della crescita spirituale. Lì sarebbe stata adeguata: entrando in un’abbazia, trovando una ragione di esistere nella vita di clausura, unita con altri in costante preghiera. Invece era nata in un’epoca in cui nessuno di quelli che conosceva credeva in Dio. Lei inclusa.
Theresa sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Le ricacciò indietro con impazienza e si allontanò dalla vista del suo corpo nudo nello specchio. Era stupido piangere. Lei era nata in quell’epoca, non nel passato e anche quello faceva parte del dono. Era destinata a trovare un’altra via, una spinta differente verso la luce che così spesso disperava di trovare. Dopo interi mesi, anni, di meditazione e false partenze, era arrivata a capire cosa fosse.