Quelli del Rifugio e Lizzie Francy.
Le porte si aprirono, e Lizzie si prese un istante prezioso per chiudere gli occhi e rivolgere una breve preghiera di ringraziamento a un Dio nel quale non credeva. Il Dio di Billy, il Dio di sua madre. Lizzie non aveva bisogno di Lui. Lei ce l’aveva fatta.
Ce l’aveva "proprio fatta": si era introdotta in una fabbrica di coni a energia, per rubarne a sufficienza perché la sua tribù superasse l’inverno. Avevano tutto il resto di cui necessitavano, dopo il Cambiamento: una tela cerata polimerizzata per il campo di alimentazione; acqua che non aveva più bisogno di essere potabile; una fabbrica abbandonata per la lavorazione dei prodotti della soia che forniva uno spazio più che sufficiente per la tribù; un robot tessitore che poteva produrre con facilità abbastanza vestiti e coperte per tutti, anche per i giovani che consumavano in fretta gli abiti. Tuttavia non avevano coni a energia-Y e l’inverno sulle colline della Pennsylvania era freddo. Dato che i Muli non inviavano più materiale, coni e coperte, in cambio di voti, le tribù dovevano prendersi cura da sole di se stesse. Non lo avrebbe fatto nessun altro.
Lizzie riaprì gli occhi. Un altro robot della sicurezza sfrecciò fuori da una alcova e lei lo bloccò col disgregatore. Monitor nascosti stavano filmando l’incursione, ovviamente, ma sia lei sia Vicki erano avvolte dalla testa ai piedi in olotute. Ai monitor, Lizzie appariva una bambinetta bionda di dodici anni, all’ottavo mese di gravidanza. Vicki, invece, era un Mulo maschio dai capelli rossi con un abito elegante. Tutti i sensori a infrarossi avrebbero seguito due fonti di calore di forma umana, genere femminile, di una certa dimensione, massa e metabolismo; ma senza identità sicura.
Era così facile! Sfrecciare dentro, razziare sette o otto coni dalla fine della catena di produzione e infilarli nei sacchi, tornare di nuovo all’esterno e aspettare che la strumentazione sparasse una seconda scarica di laser per far abbassare lo scudo per altri dieci secondi, quindi scappare. Niente male per una marmocchia Viva! Corse lungo il breve corridoio verso il fondo dello stabilimento, col ventre che le ondeggiava da una parte all’altra in un ritmo da bonga.
E si immobilizzò, trovandosi davanti a un luogo impazzito.
Due muletti giravano per tutto il piano. Uno sollevava, ammassava, separava e spostava… nulla. Carichi di aria fina. L’altro portava una singola cassa fino alla fine della catena di montaggio robotizzata, la piazzava lì, riceveva coni a energia vuoti, riportava la stessa cassa al centro dello stabilimento e scaricava i coni; quindi vi passava in mezzo, facendoli schizzare per tutto il pavimento, mentre portava nuovamente la cassa vuota alla fine della catena. La cassa era intaccata in un centinaio di punti, ammaccata su un angolo, mancante delle due alette di chiusura. Sembrava essere passata attraverso una guerra. Sulla catena di montaggio, bracci robotici sollevavano i delicati meccanismi interni dei coni, forniti dalla unità di fusione a freddo sigillata… e sbagliavano a infilare le batterie nei coni, mancandoli di venti centimetri. Le batterie cadevano dalla catena di montaggio, rompendosi. I coni vuoti proseguivano nel loro cammino, verso il muletto demente che li aspettava al fondo, li impacchettava, li trasportava e li scaricava prima di tornare a prenderne altri.
Vicki sbottò: — Che…
— Gli algoritmi spaziali sono tutti incasinati — commentò Lizzie con estremo disgusto. — Dio, che "spreco". I tuoi amici proprietari controllano soltanto i tabulati della produzione, non i rapporti di qualità e nemmeno… Vicki, non è divertente!
— Sì che lo è! — ribatté Vicki. Era piegata in due dalle risate, a mala pena in grado di pronunciare le parole. — È… un’isteria. Il mondo ad alta tecnologia dei Muli… sembra una specie di Guerra Santa robotica all’Endorbacio… e quel pallone gonfiato di Jackson Aranow…
— Abbiamo soltanto pochi minuti ancora e abbiamo bisogno dei coni! Aiutami a trovare quelli imballati prima che impazzisse lo stabilimento, non può andare avanti così da molto tempo.
— No? Guarda, c’è polvere dappertutto! — E Vicki riprese a sghignazzare, tenendosi la pancia, ridendo come l’ologramma di un pazzo in un manicomio. A volte Lizzie aveva l’impressione di essere "lei" l’adulta e Vicki, col suo bizzarro senso dell’umorismo da Mulo, la bambina. Poi, in altre occasioni, Vicki diventava la donna che Lizzie ricordava dalla sua infanzia: terrorizzante, consapevole, posata, un essere che veniva da quell’altro mondo che gestiva il mondo. Ma perché non era facile entrare nella mente delle persone come nei programmi informatici? Lizzie pungolò Vicki sulla spalla.
— Vieni! Aiutami a cercare!
Vicki la seguì. Le due donne corsero verso le cassette confezionate ammassate presso uno dei muletti prima (quando?) che quelli impazzissero. Per fortuna anche il robot addetto alla sigillatura funzionava male: nessuna delle alette delle casse era fissata bene e questo rese più facile aprirle. La prima cassa in cima era vuota. Anche la seconda. La terza era stipata di batterie rotte, schiacciate contro e attorno agli alloggiamenti a cono come tuorli spalmati contro gusci d’uovo incorruttibili. Lizzie si chiese che cosa potesse avere ingarbugliato in quel modo la programmazione.
— Vicki… il tempo sta per esaurirsi! La scarica laser partirà soltanto un’altra volta, i resettaggi sono accoppiati ma la prossima coppia sarà generata a caso, non sono stata in grado di prepararmi per quella…
— Ecco! — disse Vicki, che aveva smesso di ridere. — Questa cassa è buona. Prendi tre o quattro coni… vai! Vai!
Infilarono i coni nei sacchi, quindi corsero verso il corridoio, schivando i coni vuoti che rotolavano giù dai muletti. Alla fine del corridoio, trovarono le porte dello stabilimento chiuse.
— Come… Lizzie! Si sono bloccate automaticamente!
Lizzie digitò furiosamente codici di sovrapposizione manuali, inserendo svariate sequenze per "aprire le porte". Non accadde nulla. Il sistema di sicurezza aveva riprogrammato la chiusura delle porte, non le aperture. Era una cosa sensata. Se lo scudo fosse stato disattivato, che entrasse pure chi era voluto entrare, ma che non uscisse.
Vicki chiese: — Puoi entrare nel sistema e rubare il codice?
— Non prima che sia abbassato lo scudo. E questo accadrà… ora.
Lizzie si appoggiò alla porta. Il suo corpo si accasciò al suolo lentamente, come una bambola di pezza, col sacco di preziosi coni a energia-Y stretto sotto il braccio. Non ce l’aveva fatta. Aveva fallito, lei, Lizzie Francy, e ormai lei e Vicki erano intrappolate all’interno della fabbrica di coni, un edificio impenetrabile in cemespugna. Anche se fossero uscite dallo stabilimento, poi, sarebbero rimaste bloccate, in un passaggio sterrato di tre metri attorno all’edificio, da uno scudo a energia-Y attraverso cui non sarebbe passata una molecola più grossa di quelle dell’aria. Erano in trappola.
— Vicki — sussurrò, e non era più la geniale ragazzina che si intrufolava nelle banche dati, era una diciassettenne impaurita che si aggrappava a un adulto. — Vicki, cosa potremo "fare", noi?
— Aspetteremo — rispose Vicki con espressione risoluta. Si accomodò vicino a Lizzie, appoggiando anche lei la schiena contro la porta. — Finché non comparirà qualcuno.
Lizzie allungò una mano verso un tratto di pavimento appena davanti alla porta. Passò le dita sulla cemespugna. Divennero nere di polvere. — E quanto tempo pensi che è passato, tu, dall’ultima volta che qualcuno è venuto qui? — Si accorse che era tornata al linguaggio tipico dei Vivi, quello che usava sempre quando era agitata. Lo odiava.
— Qualcuno verrà a controllare la causa dell’interruzione nel sistema di sicurezza. — disse Vicki.
— Qualche supervisore tecnico mandato dalla TenTech. La polvere non significa che non viene mai nessuno. L’intero sistema di riciclo dell’aria potrebbe essere saltato nello stesso momento in cui sono impazziti gli altri robot, risputando tutta la polvere accumulata all’interno.