Notò un altro ramo che s’incrociava qualche centimetro più in là con il suo pericolosamente sottile. Se soltanto avesse potuto raggiungerlo…

Si sporse in avanti e allungò una mano.

Il ramo, già inclinato, non si ruppe. Fece soltanto un rumorino sordo e si torse.

Scuotivento si trovò appeso all’estremità di una lingua di corteccia e di fibra, che si andava allungando via via che si staccava dall’albero. Guardò giù e con una sorta di soddisfazione fatalistica vide che sarebbe atterrato proprio sul lupo più grosso.

Adesso si muoveva lentamente mentre la striscia di corteccia si andava sempre più allungando. Il serpente lo osservava pensieroso.

Ma la corteccia teneva. Scuotivento cominciava già a congratularsi con se stesso quando, alzando gli occhi, vide quello che fino allora non aveva notato. Proprio davanti a lui, pendeva dal ramo il più grosso nido di vespe che avesse mai visto.

Chiuse forte gli occhi.

"Perché il troll?" si chiedeva. "Tutto il resto rientra nella mia solita fortuna, ma perché il troll? Che diavolo succede’7"

Clic. Poteva essere un ramoscello che si spezzava, ma sembrava che il rumore si producesse nella testa del mago. Clic, clic. E un venticello che però non smuoveva nemmeno una foglia.

Passando, la striscia di corteccia strappò via dal ramo il nido di vespe, che sfrecciò accanto alla testa di Scuotivento. Lui lo vide rimpicciolire mentre piombava sul cerchio di musi alzati.

Il cerchio si chiuse d’improvviso.

D’improvviso il cerchio si allargò.

Un concerto di ululati di dolore echeggiò tra gli alberi mentre il branco di lupi cercava di sfuggire alla nuvola infuriata. Scuotivento ridacchiava in modo insensato.

Urtò con il gomito contro qualcosa. Era il tronco dell’albero. La striscia di corteccia lo aveva portato dritto all’estremità del ramo. Ma non c’erano altri rami. La superficie liscia accanto a lui non offriva nessuna presa.

Però offriva delle mani. Due spuntavano in quel momento dalla corteccia coperta di muschio: mani sottili, verdi come le foglie nuove. Poi seguì un braccio ben modellato e quindi l’amadriade si sporse, afferrò il mago sbalordito e, con quella forza vegetale che riesce a penetrare la roccia con le radici, lo tirò dentro l’albero. La solida corteccia si divise come nebbia, si richiuse come un’ostrica.

La Morte guardava impassibile.

Lanciò un’occhiata alla nuvola di effimere danzanti gioiose vicino al suo teschio. Schioccò le dita. Gli insetti piombarono giù. Ma in qualche modo, non era la stessa cosa.

Blind lo spinse sul tavolo la sua pila di gettoni, lanciò uno sguardo torvo con quelli dei suoi occhi che si trovavano nella stanza, e uscì. Alcuni semidei se ne uscirono in risolini soffocati. Almeno Offler aveva accolto la perdita di un troll in perfetto stato con buona grazia anche se un po’ servile.

L’ultimo avversario della Signora spostò la sua seggiola fino a trovarsi di fronte a lei davanti alla scacchiera.

— Signore — disse lei cortesemente.

— Signora — rispose lui. I loro occhi s’incontrarono.

Era un dio taciturno. Si diceva che fosse arrivato nel mondo-disco in seguito a un terribile e misterioso incidente in un’altra Eventualità. Naturalmente gli dei godono della prerogativa di controllare la loro forma esteriore anche nei confronti di altri dei. Il Fato del mondo-disco era un uomo cortese, più che di mezza età, con i capelli grigi ben pettinati e un viso che ispirava fiducia; un tipo, insomma, al quale una fanciulla avrebbe volentieri offerto un bicchiere di birra, se lui fosse apparso alla porta di servizio. Un tipo che un giovane garbato sarebbe stato lieto di aiutare a scendere le scale. Eccetto che per i suoi occhi, naturalmente.

Nessun dio può celare lo sguardo e la natura dei suoi occhi. La natura degli occhi del Fato era questa: mentre a un’occhiata superficiale apparivano semplicemente scuri, a un esame più attento si sarebbero rivelati, troppo tardi, soltanto due buchi che si aprivano su un’oscurità così remota, così profonda che l’osservatore si sarebbe sentito inesorabilmente attirato in quei due pozzi gemelli di notte senza fine e i loro terribili astri rotanti…

La Signora ebbe un piccolo colpo di tosse e mise sul tavolo ventuno gettoni bianchi. Poi ne estrasse dalla tunica un altro, argenteo e traslucente, grande il doppio. L’anima di un vero Eroe trova sempre un migliore corso di cambio ed è tenuta in gran conto dagli dei.

Il Fato inarcò un sopracciglio e disse: — Niente imbrogli, Signora.

— Ma chi potrebbe imbrogliare il Fato? — domandò lei. Lui scrollò le spalle.

— Nessuno. Eppure tutti ci provano.

— Eppure, credo di non sbagliare dicendo che mi avete prestato un po’ di assistenza contro gli altri?

— Ma certo. Perché la fine della partita potesse essere più dolce, Signora. E adesso…

Pescò dalla sua scatola da gioco un pezzo che depose sulla scacchiera con aria soddisfatta. Gli dei che stavano a guardare dettero un sospiro collettivo. Perfino la Signora per un momento parve sorpresa.

Era certamente brutto. La fattura era rozza, come se le mani dell’artigiano tremassero dal terrore della cosa che prendeva forma sotto le sue dita riluttanti. Sembrava fosse tutto ventose e tentacoli. E mandibole, osservò la Signora. E un unico grande occhio.

— Credevo che fosse morto al principio del Tempo — disse.

— Forse la nostra necrotica amica era restia perfino ad avvicinarlo — rise il Fato. Si stava divertendo.

— Non avrebbe mai dovuto essere generato.

— Cionondimeno — disse il Fato sentenziosamente. Vuotò i dadi nel loro insolito contenitore e alzò gli occhi sulla Signora.

— A meno che — aggiunse — desideriate ritirarvi…

Lei scosse la testa. — Giocate — disse.

— Potete uguagliare la mia posta?

— Giocate.

Scuotivento sapeva cosa c’era dentro gli alberi: legno, linfa, possibilmente scoiattoli. Non un palazzo.

Eppure… i cuscini su cui sedeva erano senz’altro più morbidi del legno, il vino nella coppa di legno molto più gustoso della linfa, e non poteva assolutamente esserci paragone fra uno scoiattolo e la fanciulla che gli sedeva di fronte e lo guardava, con le mani intrecciate intorno alle ginocchia. A meno di fare menzione di certe tracce di pelosità.

La stanza era alta, vasta e illuminata da una morbida luce gialla proveniente da una fonte che Scuotivento non riusciva a identificare. Attraverso gli archi nodosi si vedono altre stanze e una grande scala a chiocciola. E dire che, dall’esterno, gli era sembrato un albero perfettamente normale.

La fanciulla era verde, la carne verde. Di questo Scuotivento era certissimo perché lei non portava altro che un medaglione intorno al collo. I suoi capelli avevano un aspetto vagamente muschioso. I suoi occhi, senza pupille, erano di un verde luminoso. Scuotivento rimpianse di non avere prestato la dovuta attenzione alle lezioni di antropologia all’Università.

Fino a quel momento lei era rimasta in silenzio. Oltre a indicargli il sedile e offrirgli il vino, si era limitata a restare seduta a osservarlo, strofinandosi di tanto in tanto uno sgraffio profondo sul braccio.

— Mi dispiace di quello — disse in fretta il mago. — È stato soltanto un incidente. Voglio dire, c’erano quei lupi e…

— Hai dovuto arrampicarti sul mio albero e io ti ho salvato — disse soavemente la driade. — È stata una fortuna per te. E per il tuo amico, forse?

— Amico?

— L’ometto con la cassa magica.

— Oh, certo, lui. Già. Spero che stia bene.

— Ha bisogno del tuo aiuto.

— Come sempre. Anche lui è finito su un albero?

— Lui è finito al Tempio di Bel-Shamharoth.

A Scuotivento il vino andò di traverso. Le orecchie tentarono di rientrargli nella testa dal terrore delle sillabe che avevano appena udite. Il Mangiatore di Anime! Prima che potesse fermarli, i ricordi ritornavano a frotte. Una volta, quand’era studente di magia all’Università Invisibile, si era infilato, per scommessa, nella stanzetta accanto alla biblioteca principale. La stanza dai muri ricoperti da pentagrammi protettivi di piombo, la stanza che a nessuno era permesso di occupare per più di quattro minuti e trentadue secondi, cifra alla quale si era arrivati dopo duecento anni di cauta sperimentazione…


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