Qualcos’altro avanzava nel passaggio. Un oggetto grosso oblungo di legno cerchiato d’ottone. Aveva centinaia di gambette. Ed era ciò che sembrava. Una cassa che si muoveva, del tipo che compare nelle storie di pirati, zeppa di oro e gioielli guadagnati illecitamente… Poi, ciò che avrebbe dovuto essere il coperchio si spalancò d’improvviso.

Non c’erano gioielli. Ma c’era una quantità di grossi denti quadrati, bianchi come il sicomoro, e una lingua palpitante, rossa come il mogano.

Un vecchio bagaglio stava venendo a mangiarlo.

Rjinswand si strinse all’ignaro Duefiori per trovare conforto. Desiderò fervidamente di trovarsi altrove…

Una repentina oscurità.

Un lampo brillante.

L’improvvisa partenza di diversi quintilioni di atomi da un universo dove non avevano alcun diritto di essere causò un violento squilibrio nell’armonia della Globalità che essa cercò freneticamente di ristabilire e, così facendo, cancellò un certo numero di subrealtà. Ondate enormi di magia allo stato puro ribollirono incontrollate intorno alle fondamenta stesse del multiverso e fuoriuscirono da ogni crepaccio nelle dimensioni fino allora pacifiche, causando nove, supernove, collisioni stellari, voli impazziti di oche e l’affondamento di continenti immaginari. Mondi lontani quanto l’altro termine del tempo videro brillanti tramonti di corrusco ottarino mentre volteggiavano nell’atmosfera particelle cariche di magia. Nell’alone cometario che circonda il favoloso Sistema Ghiacciato di Zeret una nobile cometa si spegneva mentre un principe fiammeggiava nel cielo.

Tutto questo, però, andò perduto per Scuotivento: tenendo stretto alla vita l’inerte Duefiori, il mago precipitava verso il mare del Disco a parecchie centinaia di metri più in basso. Neppure le convulsioni di tutte le dimensioni potevano infrangere la ferrea Legge della Conservazione dell’Energia, e il breve viaggio in aereo di Rjinswand era bastato per trasportarlo di parecchie centinaia di chilometri in linea orizzontale e di oltre duemila in linea verticale.

La parola "aereo" risplendette e si spense nella mente di Scuotivento.

Era una nave quella laggiù?

Le fredde acque del Mare Circolare gli balzarono incontro e lo risucchiarono nel loro verde abbraccio soffocante. Un attimo dopo vi fu un altro tonfo e il bagagliaio, con ancora l’etichetta dalla potente scritta runica TWA, sprofondò anch’esso nel mare.

Più tardi, lo usarono come zattera.

Vicino al Bordo

C’era voluto molto tempo per costruirlo. Adesso era quasi completo e gli schiavi toglievano a colpi di scalpello gli ultimi resti di argilla del manto.

Là dove altri schiavi strofinavano alacremente i suoi fianchi di metallo con l’argento, cominciava già a brillare nel sole con la serica lucentezza propria del bronzo nuovo. Era ancora caldo, anche dopo essere rimasto per una settimana a raffreddarsi nella fossa di colata. L’Arciastronomo di Krull fece un gesto con la mano e i portatori deposero il suo trono all’ombra dello scafo.

"Come un pesce" pensò. "Un grande pesce volante. E di quali mari?"

— È davvero magnifico — bisbigliò. — Una vera opera d’arte.

— È frutto di abile mestiere — disse l’uomo tarchiato al suo fianco. L’Arciastronomo si voltò lentamente a fissare il suo volto impassibile. Non è difficile per un volto sembrare impassibile quando al posto degli occhi ci sono due globi d’oro. Che brillavano in modo sconcertante.

— Davvero un abile mestiere — sorrise l’astronomo. — Ritengo che non ci sia un artigiano più abile di te in tutto il Disco. Occhiodoro. Ho ragione?

L’artigiano non rispose subito. Il suo corpo nudo (nudo, se non fosse stato per una cintura con gli arnesi, un pallottoliere da polso e una marcata abbronzatura) si irrigidì mentre ponderava sulle implicazioni di quella osservazione. I suoi occhi d’oro sembravano guardare in un altro mondo.

— La risposta è sì e no — disse alla fine. Alcuni degli astronomi minori che si tenevano dietro il trono trattennero il fiato a quella mancanza di etichetta, ma l’Arciastronomo sembrò non notarla.

— Continua — lo incoraggiò.

— Io manco di certe capacità essenziali. Eppure sono Occhiodoro Manodargento Dactylos. Ho fatto i Guerrieri Metallici a guardia della Tomba di Pitchiu, ho disegnato i Bacini Luminosi del Grande Nef, ho costruito il Palazzo dei Sette Deserti. E tuttavia… — Si batté un dito su uno degli occhi, che risuonò debolmente. — Quando ho costruito l’esercito di automi per Pitchiu, lui prima mi ha ricoperto d’oro e poi. per impedirmi di creare un’altra opera che rivaleggiasse con la sua, mi ha fatto cavare gli occhi.

— Saggio ma crudele da parte sua — affermò con simpatia l’Arciastronomo.

— Già. Così ho imparato a udire la tempra dei metalli e a vedere con le mie dita. Ho imparato a distinguere i minerali al tatto e all’odorato. Mi sono fatto questi occhi, ma non sono riuscito a fare in modo che vedessero.

"Più tardi sono stato chiamato a costruire il Palazzo dei Sette Deserti e, come risultato, l’Emiro mi ha ricoperto d’argento e poi mi ha fatto tagliare la mano destra, cosa che non mi ha del tutto colto di sorpresa"

— Un serio impedimento nel tuo mestiere — dichiarò l’Arciastronomo.

— Ho usato un po’ dell’argento per farmi questa nuova mano, servendomi della mia conoscenza senza pari delle leve e dei fulcri. Ed è stato sufficiente. Dopo avere creato il primo grande Bacino Luminoso, della capacità di cinquantamila ore-luce, i consessi tribali nel Nef mi hanno ricompensato con della seta bellissima e poi mi hanno azzoppato per impedirmi di scappare. Come risultato, ho dovuto faticare un bel po’ per usare la seta e delle canne di bambù per costruirmi una macchina volante con la quale lanciarmi dalla torre più alta della mia prigione.

— E, dopo molte peripezie sei arrivato a Krull — disse l’Arciastronomo. — Impossibile non pensare che qualche altra occupazione, per esempio la coltivazione della lattuga, offrirebbe meno rischi di essere messo a morte a rate. Perché continui?

Occhidoro Dactylos si strinse nelle spalle. — Perché sono bravo in questo mestiere.

L’Arciastronomo guardò ancora il pesce di bronzo, che il sole di mezzogiorno faceva risplendere come un gongo. — Una tale bellezza — mormorò. — E unico. Via, Dactylos, ricordami quale ricompensa ti ho promesso.

— Mi hai chiesto di disegnare un pesce che nuotasse nei mari dello spazio che separano i mondi — intonò il maestro artigiano. — In cambio di che… in cambio…

— Sì? La mia memoria non è più quella di una volta — sussurrò l’altro, accarezzando il bronzo caldo al tatto.

— In cambio — riprese Dactylos, senza mostrare di sperarci troppo — tu mi avresti lasciato andare libero e senza mutilarmi. Non chiedo nessun tesoro.

— Ah sì, adesso mi ricordo. — Il vecchio alzò una mano dalle vene bluastre e aggiunse: — Ho mentito.

Un sibilo lievissimo e l’uomo dagli occhi d’oro vacillò. Abbassò lo sguardo alla freccia che gli usciva dal petto e annuì stancamente. Sulle labbra si allargò una goccia di sangue.

Nella piazza regnava il silenzio (salvo il ronzio di qualche mosca in attesa) mentre lui alzava, con molta lentezza, la mano d’argento e tastava la freccia.

— Una lavorazione grossolana — brontolò e cadde riverso.

L’Arciastronomo toccò il corpo con la punta del piede e sospirò. — Ci sarà un breve periodo di lutto come si conviene per un mastro artigiano — disse. Osservò un tafano posarsi su uno degli occhi d’oro e volare via sconcertato… — Questo può bastare — decretò, e ordinò a due schiavi di portare via la salma.

— Sono pronti i chelonauti? — chiese.

Il capo controllore del lancio si precipitò avanti. — Certo, Vostra preminenza.

— Sono state intonate le preghiere appropriate?

— Naturalmente, Vostra preminenza.


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