Il relitto oltrepassò roteando ammassi di polpi da incubo e foreste oscillanti di alghe, che brillavano di colori tenui, malsani. Delle Cose lo sfioravano con i morbidi, freddi tentacoli mentre sfrecciavano via nel silenzio gelido.
Qualcosa spuntò da! fango e se lo mangiò in un boccone.
Più tardi gli isolani di un piccolo atollo non troppo distante dal Bordo, scoprirono con stupore, nella loro piccola laguna, il cadavere straziato dalle rocce di un orribile mostro marino, tutto becchi, occhi e tentacoli. Ciò che più li stupì fu la sua mole, perché era parecchio più grande del loro villaggio. Ma la loro sorpresa era nulla paragonata all’espressione atterrita sul muso del mostro, che sembrava fosse stato calpestato a morte.
A poca distanza dall’atollo due piccole barche, che calavano una rete per la pesca delle ostriche, della specie aggressiva che nuota liberamente nell’acqua e che abbonda in quei mari, presero qualcosa che le trascinò per diversi chilometri prima che uno dei capitani avesse la presenza di spirito di tagliare i fili.
Ma anche il suo sbalordimento fu nulla paragonato a quello degli abitanti dell’ultimo atollo dell’arcipelago. Nella notte seguente furono risvegliati da un terribile strepito proveniente dalla loro minuscola giungla. Al mattino, quando i più audaci andarono a indagare, scoprirono che gli alberi erano stati divelti in una larga fascia che dall’interno puntava precisamente verso il bordo dell’atollo ed era ricoperta di liane spezzate, cespugli abbattuti e qualche ostrica sbalordita e arrabbiata.
Adesso erano abbastanza alti per scorgere la larga curva dell’Orlo allontanarsi, lambita dalle nuvole vaporose che pietosamente nascondevano la cascata. Da quell’altezza il mare, di un azzurro profondo striato dall’ombra delle nuvole vaganti, sembrava quasi invitante. Scuotivento rabbrividì.
— Scusatemi — disse. La figura incappucciata si strappò dalla contemplazione della lontana foschia e sollevò minacciosa la sua verga.
— Non voglio usarla — disse.
— No? — disse Scuotivento.
— Che cos’è comunque? — chiese Duefiori.
— È la verga della Totale Negatività di Ajandurah — rispose Scuotivento. — Vorrei che smettesse di agitarla. Potrebbe mettersi a funzionare — aggiunse con un cenno alla punta lucente del bastone. — Voglio dire, è molto lusinghiera tutta questa magia che viene usata a nostro beneficio, ma non occorre arrivare fino a questo punto. E…
— Chiudi il becco. - La figura si tirò indietro il cappuccio e si rivelò per una giovane dalle tinte assai insolite: la pelle era nera. Non scura come quella degli Urabewe o del lucente nero bluastro della gente di Klatch. la terra dei monsoni, ma del nero intenso della mezzanotte in fondo a una caverna. I capelli e le sopracciglia erano del colore del chiaro di luna. Intorno alle labbra la stessa pallida lucentezza. Sembrava avere all’incirca quindici anni ed essere molto spaventata.
Scuotivento notò che la mano che teneva la verga tremava. E ciò perché è difficile non accorgersi di un oggetto di morte che vi oscilla a pochi centimetri dal naso. Cominciò a rendersi conto molto lentamente, perché era una sensazione del tutto nuova, che qualcuno al mondo aveva paura di lui. Gli accadeva così spesso il contrario che lui aveva finito per considerarlo una sorta di legge naturale.
— Come ti chiami? — le chiese in un tono che si sforzò di rendere rassicurante. La fanciulla poteva pure essere spaventata, ma aveva la verga. "Se avessi io una verga del genere" pensò "non avrei paura di niente. Quindi che mai s’immagina che potrei fare?"
— Il mio nome è immateriale — disse lei.
— È un nome grazioso. Dove ci stai portando e perché? Non mi piace che ci sia nulla di male a dircelo.
— Vi stiamo portando a Krull. E non prenderti gioco di me, Hublander. altrimenti userò la verga. Devo ricondurvi vivi, ma nessuno ha detto che dovrete essere interi. Mi chiamo Marchesa e sono una maga del quinto grado. Mi capisci?
— Bene, allora dato che sai tutto di me. saprai pure che io non ho nemmeno conseguito quello di Neofita. In realtà, non sono nemmeno un mago. — Notò l’espressione attonita di Duefiori e aggiunse in fretta: — Solo un mago di mediocre qualità.
— Tu non puoi fare magie perché uno degli Otto Grandi Incantesimi è indelebilmente impresso nella tua mente — disse Marchesa, riacquistando l’equilibrio con grazia quando la grande lente descrisse un ampio arco sul mare. — Ecco perché sei stato espulso dall’Università Invisibile. Lo sappiamo.
— Ma hai appena detto che lui era un mago di grande astuzia e artificio — protestò Duefiori.
— Sì, perché chiunque sia sopravvissuto alle sue vicende, di cui la maggior parte se le è causate da solo con la sua tendenza a considerarsi un mago, be’, deve essere in qualche modo un incantatore — disse Marchesa. — Ti avverto, Scuotivento. Se ho il minimo sospetto che tu intoni il Grande Incantesimo, ti ucciderò davvero. — Lo guardò nervosamente.
— Mi sembra che la cosa migliore sarebbe depositarci da qualche parte — disse Scuotivento. — Cioè, grazie per averci liberati e tutto, così se tu ci lasciassi vivere la nostra vita, sono sicuro che noi tutti…
— Spero che non ti riprometti di farci schiavi — interloquì Duefiori.
Marchesa parve sinceramente scioccata. — Certamente no! Cosa mai può avervi suggerito un’idea del genere? La vostra vita a Krull sarà ricca, piena, confortevole…
— Oh, bene! — esclamò Scuotivento.
— …solo non molto lunga.
Krull si rivelò un’isola grande, montagnosa e fittamente boschiva, con graziosi edifici bianchi visibili qua e là tra gli alberi. Il terreno digradava dolcemente verso il bordo, così che il punto più alto di Krull in effetti lo sovrastava di poco. Là i krulliani avevano costruito la loro città principale, chiamata pure Krull e, dato che tanta parte del materiale edilizio era stato recuperato dalla Circonferenza, le case di Krull erano di tipo decisamente nautico.
Per dirla tutta, intere navi erano state saldate insieme con grande maestria e trasformate in edifici. Triremi, sambuchi e caravelle sporgevano a strani angoli dal caos di legno generale. Polene dipinte e hublandiche prue a forma di dragone ricordavano ai cittadini di Krull che la loro buona sorte gli veniva dal mare; golette e galeoni conferivano un carattere particolare agli edifici più grandi. E così la città si stendeva, file su file di case, tra l’oceano verde-azzurro del Disco e il mare del Bordo, velato da soffici vapori, gli otto colori del Rimbow riflessi in ogni finestra e nelle lenti dei telescopi dei numerosi astronomi.
— È assolutamente terribile — esclamò Scuotivento in tono lugubre.
La lente costeggiava il margine della cascata. Avvicinandosi al Bordo, non soltanto l’isola si faceva più alta; si faceva anche più stretta, così che la lente poté rimanere sopra l’acqua finché fu vicinissima alla città. Il parapetto che correva lungo lo strapiombo era punteggiato da cavalietti protesi nel nulla. La lente scivolò verso uno di loro e vi si agganciò con la stessa facilità con cui un’imbarcazione attracca al molo. Li aspettavano quattro guardie con gli stessi capelli lunari e volti neri come la notte di Marchesa. Non sembravano armate; però, quando Scuotivento e Duefiori misero piede sul parapetto, vennero afferrati per le braccia e tenuti saldamente così da allontanare istantaneamente ogni pensiero di fuga.
Marchesa e i maghi idrofobi restarono indietro e le guardie con i prigionieri si avviarono di buon passo per un sentiero tortuoso tra le case-navi. Ben presto la strada in discesa li portò in una specie di palazzo, mezzo scavato nella roccia dello strapiombo. C’erano gallerie vivacemente illuminate e cortili sotto il cielo distante. Alcuni uomini anziani, dalle vesti coperte di simboli misteriosi, guardarono passare il sestetto. Più volte Scuotivento notò degli idrofobi (la loro innata espressione di disgusto per i propri fluidi corporei era inequivocabile) e qua e là uomini che camminavano faticosamente, certo degli schiavi. Non ebbe tempo di riflettere sul fatto, perché davanti a loro si aprì una porta ed essi furono spinti, con gentile fermezza, in una sala. Poi la porta si richiuse alle loro spalle.