Soltanto Lev se n’era andato, e aveva trovato un posto nuovo, lontano, a nord, nelle terre disabitate, un posto dove andare… Ed era tornato, e aveva detto «No» al Padrone Falco.
Ma Lev era libero, era sempre stato libero. E per questo non c’era stato un momento nella vita di lei, prima o dopo, come quello in cui era stata al suo fianco, sulle alture della città nella luce dorata prima della tempesta, e aveva visto con lui cos’era la libertà. Per un momento. Una raffica di vento marino, un incontro di sguardi.
Non lo vedeva da più di un anno. Lui era tornato a Shantih nel nuovo abitato, libero, dimenticandosi di lei. Perché doveva ricordarla? E lei, perché doveva ricordarlo? Aveva altre cose a cui pensare. Era una donna, ormai. Doveva affrontare la vita. Anche se la vita non aveva altro da mostrarle che una porta chiusa oltre la quale non c’era nulla.
III
I due insediamenti umani sul pianeta Victoria erano separati da sei chilometri. A quanto ne sapevano gli abitanti di Shantih e di Victoria, non ce n’erano altri.
Molta gente aveva un’occupazione — trasportare i prodotti o seccare il pesce — che la portava spesso da un insediamento all’altro; ma erano molto più numerosi quelli che vivevano nella città e non andavano mai nel paese, o che vivevano in uno degli abitati agricoli presso il paese e non andavano mai in città.
Quando quattro uomini e una donna, in gruppo, scesero lungo la strada del paese, fino al ciglio delle alture, guardarono con viva curiosità e considerevole soggezione la città che si stendeva sotto di loro sulla collinosa riva della baia di Songe; si fermarono sotto la Torre Monumentale — il guscio di ceramica di una delle navi che avevano portato su Victoria i primi coloni — ma non le dedicarono molto tempo: era una visione nota, imponente per le dimensioni ma scheletrica e anche un po’ patetica perché era puntata bravamente verso le stelle ma aveva l’unica funzione di guidare i pescherecci. Era morta, mentre invece la città era viva.
— Guardate — disse Hari, il più anziano del gruppo. — Anche a star qui un’ora non si riuscirebbe a contare tutte quelle case! Sono centinaia!
— Come una città della Terra — commentò con fierezza un altro, che veniva più spesso.
— Mia madre era nata a Moskva, nella Russia Nera — disse un terzo. — Diceva che sulla Terra la città sarebbe stata soltanto un paesino. — Ma questa era un’esagerazione per gente che aveva sempre vissuto tra gli umidi campi e i piccoli abitati, stretti dal vincolo del duro lavoro e della fratellanza, al di fuori del quale stavano gli immensi e indifferenti territori disabitati. — Senza dubbio — osservò uno, con blanda incredulità, — avrà voluto dire un grosso paese, no? — Si fermarono sotto il vuoto guscio dell’astronave, guardando il vivace color ruggine dei tetti di tegole e di paglia, e i comignoli fumanti, e le linee geometriche dei muri e delle vie, dimenticando l’immenso panorama di spiagge e baia e oceano, di valli vuote e colline vuote e cielo vuoto, che circondava la città con un’immane desolazione.
Quando superarono la scuola, addentrandosi nelle vie, poterono dimenticare interamente la presenza dei territori disabitati. Erano circondati dalle opere dell’umanità. Le case, quasi tutte costruite a schiera, fiancheggiavano la strada su entrambi i lati con alti muri e piccole finestrelle. Le vie erano strette e coperte da una spanna di fango. In certi punti c’erano passerelle di legno: ma erano in pessimo stato, e la pioggia le aveva rese sdrucciolevoli. Passava poca gente, ma una porta aperta poteva mostrare il cortile di una casa, pieno di donne, di biancheria, di bambini, di fumo e di voci. Poi, di nuovo il soffocante e sinistro silenzio della via.
— Meraviglioso! Meraviglioso! — sospirò Hari.
Passarono davanti alla fabbrica dove il ferro proveniente dalle miniere e dalla fonderia governative veniva trasformato in attrezzi, utensili da cucina, serrature, e così via. La porta era spalancata, e i cinque si soffermarono a sbirciare nella sulfurea oscurità illuminata da fuochi e da scintille e risonante di colpi di maglio, ma un operaio gridò loro di andarsene. Proseguirono lungo Via della Baia; e mentre contemplava quella via, così lunga e diritta, Hari disse ancora: — Meraviglioso!
Seguirono Vera, che conosceva la città, lungo Via della Baia, verso il Campidoglio. Quando vide il Campidoglio, Hari non trovò più parole: si limitò a sgranare gli occhi.
Era il più grande edificio del mondo, quattro volte più alto di una casa normale e costruito di solida pietra. L’alto portico era sostenuto da quattro colonne: ognuna era un enorme tronco d’albero, scanalato e imbiancato, con un pesante capitello scolpito e dorato. I visitatori si sentirono piccoli piccoli quando passarono tra quelle colonne e varcarono la porta spalancata, così alta e ampia. L’atrio, stretto ma altissimo, aveva le pareti intonacate: anni prima erano state abbellite con affreschi che andavano dal pavimento al soffitto. Nel vederli, i visitatori venuti da Shantih si fermarono di nuovo ad ammirare in silenzio, perché quelle erano immagini della Terra.
A Shantih c’era ancora gente che ricordava la Terra e ne parlava; ma i ricordi, vecchi di cinquantacinque anni, riguardavano soprattutto cose che gli abitanti avevano visto da bambini. Ormai erano pochi quelli che erano già adulti al tempo della partenza per l’esilio. Alcuni avevano dedicato anni e anni a scrivere la storia del Popolo della Pace e i detti dei suoi capi e dei suoi eroi, a descrivere la Terra, a tracciare la sua spaventosa storia antica. Gli altri parlavano raramente della Terra: al massimo cantavano ai figli nati in esilio — o ai figli dei figli — una vecchia canzone piena di nomi strani e di strane parole, o narravano le favole dei bambini e della strega, dei tre orsi, del re che cavalcava una tigre. I bambini ascoltavano a occhi sgranati. — Cos’è un orso? Anche il re ha la pelle a strisce?
Invece la prima generazione della città, inviata su Victoria cinquant’anni prima del Popolo della Pace, era venuta soprattutto dalle metropoli: Buenos Aires, Rio, Brasilia, e gli altri grandi centri del Brasil-America; e alcuni di loro erano stati uomini potenti, che conoscevano cose ancora più strane delle streghe e degli orsi. Perciò il pittore aveva dipinto scene che apparivano totalmente meravigliose a quanti ora le guardavano: torri costellate di finestre, vie piene di macchine a ruote, cieli brulicanti di macchine alate; donne dall’abito luccicante e ingioiellato e dalla bocca rossa come il sangue; uomini — alte figure eroiche — che facevano cose incredibili: cavalcavano enormi bestie quadrupedi, o stavano dietro grandi e lucidi blocchi di legno, con le braccia levate, e parlavano a folle immense, oppure avanzavano tra cadaveri e pozze di sangue alla testa di file e file di uomini vestiti tutti allo stesso modo, sotto un cielo pieno di fumo e di fuoco… I visitatori venuti da Shantih avrebbero dovuto fermarsi una settimana per vedere tutto, o passare oltre in fretta perché non potevano presentarsi in ritardo alla riunione del Consiglio. Ma si fermarono ancora una volta davanti all’ultimo affresco, che era diverso dagli altri. Anziché essere pieno di facce e di fuoco e di sangue e di macchine, era nero. Nell’angolo sinistro in basso c’era un piccolo disco verdazzurro, e in alto a destra ce n’era un altro: in mezzo e tutt’intorno c’era solo il nero. Soltanto se si guardava da vicino si vedeva che quel nero era tempestato d’innumerevoli stelle minutissime: e finalmente si scorgeva l’astronave argentea, non più lunga della punta di un’unghia, librata nel vuoto fra i due mondi. Accanto alla porta, oltre l’affresco nero, c’erano due guardie: imponenti, vestite in modo identico, con calzoni ampi, giubbotto, stivali, cintura. Non portavano soltanto la frusta infilata nella cintura, ma anche un fucile: un lungo moschetto col calcio intagliato a mano e la canna pesante. Molti abitanti di Shantih avevano sentito parlare dei fucili, ma non li avevano mai visti: e adesso li fissavano incuriositi.