Le grandi mani ustionate riposarono tra le sue. Il Capo si chinò a baciarle i capelli, carezzandoli con le labbra e la guancia. «Ti racconterò l'Arkamye,» le disse. «Adesso calmati. Dobbiamo mangiare qualcosa. Tu hai molto freddo. Secondo me, sei sotto shock. Siediti qua. Riesco ancora a mettere un tegame sul fuoco.»

Lei obbedì. Aveva ragione, sentiva un gran freddo. Si accucciò accanto al fuoco. «Gubu?» sussurrò. «Gubu, è tutto a posto. Vieni, vieni, piccolino.» Ma sotto il divano non si mosse nulla.

Abberkam le si fermò accanto, offrendole qualcosa. Un bicchiere. Era vino, vino rosso.

«Hai del vino?» gli domandò, stupita.

«Di solito bevo acqua e sto zitto. Certe volte bevo vino e parlo. Bevi.»

Lei prese umilmente il bicchiere. «Non ero sotto shock,» precisò.

«Nulla riesce a scioccare una donna di città,» fece lui serissimo. «Adesso mi dovresti aprire questo barattolo.»

«Come hai fatto a stappare il vino?» gli chiese mentre svitava il coperchio di un barattolo di pesce stufato.

«Era già aperto,» rispose il Capo con voce profonda, imperturbabile.

Per mangiare si sedettero di fronte al focolare, servendosi direttamente dal tegame appeso al gancio sul fuoco. Yoss tenne bassi, all'altezza del pavimento, dei pezzetti di pesce perché Gubu li vedesse da sotto il divano, e sussurrò al gatto, ma lui non ne volle sapere di uscire.

«Uscirà quando avrà molta fame,» disse Yoss. Era stanca di quel tremolio piagnucoloso della sua voce, del nodo alla gola, della vergogna. «Grazie per il cibo,» disse. «Adesso mi sento meglio.»

Si alzò per andare a lavare la pentola e i cucchiai. Dato che lei gli aveva detto che non si doveva bagnare le mani, il Capo non si offrì di aiutarla, ma rimase seduto immobile accanto al fuoco, come un grosso masso scuro.

«Vado di sopra,» disse Yoss quand'ebbe finito. «Forse riesco a prendere Gubu per portarmelo dietro. Posso avere un paio di coperte?»

Lui fece segno di sì. «Sono lassù. Ho acceso il fuoco,» aggiunse poi. Yoss non capiva. Era in ginocchio per guardare sotto il sofà. In quel mentre capì quanto doveva essere ridicola, una vecchia infagottata negli scialli con il culo all'aria, che sussurrava "Gubu! Gubu!" a un mobile. Ma poi sentì un fruscio, e Gubu le arrivò dritto in mano, aggrappandosi alla sua spalla con il naso nascosto sotto l'orecchio. Yoss si drizzò sui talloni e guardò raggiante Abberkam. «Eccolo!» disse, mentre si alzava in piedi con una certa difficoltà. «Buona notte.»

«Buona notte, Yoss,» fece lui. Yoss non osava prendere la lampada a olio, così risalì le scale al buio, tenendo stretto Gubu tra le mani fino a che non fu entrata nella stanza a occidente ed ebbe chiuso la porta. Poi rimase a bocca aperta. Abberkam aveva ripristinato il camino, e a un certo punto della serata aveva acceso la zolla di torba già pronta. Il bagliore rossastro guizzava contro le finestre basse e lunghe, nere per la notte, e l'odore era così dolce. Un lettone che prima si trovava in un'altra camera adesso occupava questa, ed era già preparato, con materasso e lenzuola e un nuovo panno bianco di lana. Sullo scaffale presso il camino vide una brocca e una bacinella. Il vecchio tappeto su cui si sedeva di solito era stato battuto e spazzolato, e adesso era steso presso il focolare, liso e pulito.

Gubu le fece forza con le zampe contro le braccia. Quando lo appoggiò a terra, il gatto filò di corsa sotto il letto. Lì sarebbe stato benone. Yoss versò nella bacinella un goccio d'acqua dalla brocca, poi la posò sulla pietra del focolare nel caso gli venisse sete. Per i bisogni poteva usare il mucchio di cenere. Qui c'è tutto quel che ci serve, pensò, ammirando ancora sbigottita la stanza immersa nella penombra, la luce soffusa che baciava le finestre dall'interno.

Poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle, e scese dabbasso. Abberkam era ancora seduto davanti al camino. Le lanciò un'occhiata luminosa. Lei non sapeva cosa dire.

«T'è piaciuta la stanza?» le chiese.

Lei annuì.

«Hai detto che forse un tempo è stata la stanza di due amanti. Io ho pensato che forse poteva essere la stanza di due amanti futuri.»

Dopo qualche secondo lei rispose, «Forse».

«Non stanotte,» aggiunse lui con quel suo basso brontolio, che lei comprese essere una risata. Già una volta l'aveva visto sorridere, e adesso lo sentiva ridere.

«No, non stanotte,» disse recisa.

«Mi servono le mani,» fece lui. «Per quello, per te, mi serve tutto.»

Yoss non rispose, limitandosi a guardarlo.

«Per piacere, Yoss, siediti.» Lei si sedette sulla pietra del focolare di fronte ad Abberkam.

«Quand'ero malato ho riflettuto su molte cose,» le disse lui, sempre con un filo di retorica nella voce. «Ho tradito la mia causa, ho mentito e ho rubato in suo nome, perché non potevo ammettere di aver perso la fede. Temevo gli Alieni perché temevo i loro dèi. Quante divinità! Temevo potessero sminuire il mio Signore. Sminuire lui!» Rimase in silenzio per un minuto, per riprendere fiato. Yoss sentiva il rantolo nel profondo dei polmoni. «Ho tradito molte volte la madre di mio figlio. Lei, altre donne, me stesso. Non ho tenuto fede all'unica cosa nobile.» Spalancò le mani, con una piccola smorfia, per guardare le piaghe. «Tu invece non l'hai fatto.»

Qualche tempo dopo Yoss disse, «Sono rimasta con il padre di Safnan appena qualche anno. Ho avuto altri uomini. Ma adesso che importa?»

«Non è questo che intendo. Voglio dire che tu non hai tradito i tuoi uomini, tua figlia, te stessa. D'accordo, è acqua passata. Dirai, adesso che importa, non importa più nulla. Però anche adesso mi dài una possibilità, questa bella occasione, la dài a me, l'occasione di tenerti, di tenerti stretta.»

Lei non disse nulla.

«Sono arrivato qui coperto di vergogna,» proseguì lui. «E tu mi hai reso onore.»

«E perché io? Chi sono io per giudicarti?»

«"Fratello, io sono te."»

Lei lo guardò terrorizzata, appena uno sguardo, poi abbassò gli occhi sul fuoco. La fiamma della torba era bassa e calda, ed emanava appena un fil di fumo. Yoss pensò al calore, alla tenebra del corpo di quell'uomo.

«Ci sarà mai pace tra noi?» chiese alla fine.

«Hai bisogno di pace?»

Dopo un po' Yoss fece un mezzo sorriso.

«Farò del mio meglio,» rispose Abberkam. «Fermati in questa casa.»

Lei assentì.

IL GIORNO DEL PERDONO

Solly era stata una monella dello spazio, la figlia di un Mobil, passando da un'astronave all'altra, da un mondo all'altro. Aveva viaggiato per cinquecento anni luce ancor prima di compiere i dieci anni. All'età di venticinque anni s'era ritrovata nel bel mezzo di una rivoluzione su Alterra. Aveva imparato l'aiji su Terra e l'arte del pre-pensiero da un vecchio Hilfer su Rokanan, aveva completato in fretta le scuole su Hain ed era sopravvissuta a una missione come osservatrice su Kheakh, posto terribile e morente, saltando in questo modo un altro mezzo millennio quasi alla velocità della luce. Era giovane ma aveva visto un sacco di cose.

Era stufa che la gente dell'ambasciata di Voe Deo le dicesse in continuazione di stare attenta a questo, di ricordare quello. In fondo anche lei era diventata un Mobil. Werel aveva le sue stravaganze come tutti gli altri mondi, no? Aveva studiato, sapeva quando inchinarsi e quando non doveva ruttare, e viceversa. Era un sollievo starsene finalmente per conto proprio in questa splendida cittadina, in questo splendido piccolo continente, la prima e sola inviata dell'Ekumene nel divino regno del Gatay.

Da giorni si sentiva girare la testa a causa dell'altitudine, del piccolo sole brillante che inondava di luce verticale ie strade affollate, delle cime che si stagliavano incredibili dietro ogni palazzo, del cielo blu scuro dove le stelle vicine risplendevano tutto il giorno, delle notti abbaglianti sotto sei o sette mozziconi ballonzolanti di luna, della gente alta e nera con gli occhi scuri, teste strette, piedi e mani lunghi e magri, gente bellissima, la sua gente! Lei li amava tutti, anche se ne vedeva sin troppi.


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