Quando capirono chi era, i dirigenti della compagnia cercarono di far sloggiare tutti gli altri attori, lasciandola sola con Batikam (e San e il maggiore, naturalmente), ma lei disse, «No no no, no, questi artisti fantastici non devono essere disturbati. Lasciatemi parlare solo per un attimo con Batikam.» Stava lì nel trambusto del cambio dei costumi, tra gente mezza nuda, col trucco disfatto, risate, la tensione che cominciava a dissolversi dopo lo spettacolo, il retroscena qualsiasi di un mondo qualsiasi, parlando con quell'uomo di intensa acutezza vestito con un elaborato costume femminile dei tempi andati. Andarono subito d'accordo. «Puoi venire a casa mia?» gli chiese lei. «Con piacere,» disse Batikam, e i suoi occhi non scattarono verso il viso di San o del Maggiore. Era la prima volta che non vedeva uno schiavo lanciare uno sguardo alla sua guardia o alla sua guida per chiedere il permesso di dire o fare una cosa, qualsiasi cosa. San sembrava evasivo, il maggiore era rigido. «Torno tra un attimo,» disse Batikam. «Devo cambiarmi.»

Si scambiarono un sorriso e lei se ne andò. L'eccitazione era di nuovo nell'aria. Le enormi stelle vicine erano ammassate come grappoli di fuoco, una luna precipitò dietro i picchi ghiacciati, un'altra saltellò sopra i pinnacoli a volute del palazzo come una lanterna sbilenca. Solly camminava a grandi passi per le strade buie godendosi la libertà e il calore del vestito da uomo che indossava, e costringeva San a correre. Il maggiore dalle gambe lunghe, invece, reggeva bene il suo passo. Una voce alta, squillante la chiamò, «Nunzio!» Lei girò il capo con un sorriso, poi si voltò del tutto nel vedere il maggiore avvinghiato con qualcuno all'ombra di un portico. Lui si divincolò, la raggiunse senza dire nulla, le afferrò il braccio in una morsa d'acciaio e la trascinò in una corsa. «Lasciami!» disse Solly, dibattendosi. Non voleva usare una mossa aiji su quell'uomo, ma era l'unica risorsa che avesse a disposizione.

Effettuando una svolta improvvisa in un vicolo, lui la fece quasi cadere. Solly gli correva al fianco, lasciando che la tenesse per il braccio. Arrivarono senza preavviso sotto la sua porta, ed entrarono in casa dopo che lui aveva aperto il cancello con una parola. Come aveva fatto? «Che significa?» chiese lei, liberandosi facilmente e massaggiandosi il braccio dove la morsa dell'uomo le aveva fatto venire dei lividi.

Adirata, Solly scorse l'ultimo guizzo di un sorriso esaltato sul viso dell'uomo. Respirando a fatica lui le chiese, «È ferita?»

«Ferita? Sì, dalle tue strapazzate. Cosa pensavi di fare?»

«Stavo tenendo quel tipo lontano da lei.»

«Quale tipo?»

Lui non rispose.

«Quello che mi ha chiamato? Forse voleva parlarmi.»

Dopo un attimo di esitazione, il maggiore disse, «È possibile. Era nell'ombra, ho pensato che potesse essere armato. Devo uscire a cercare San Ubattat. Per favore, tenga la porta sbarrata finché non torno». Era già fuori dalla porta quando diede quell'ordine, non gli venne affatto in mente che lei avrebbe potuto non obbedire, eppure Solly obbedì, furibonda. Pensava forse che non fosse in grado di badare a se stessa, che avesse bisogno che lui interferisse nella sua vita privata andando in giro a prendere a calci gli schiavi per "proteggerla"? Forse era ora che si accorgesse di cos'era una caduta aiji. Lui era forte e veloce, ma non era molto allenato. Questo tipo di interferenza pasticciona era intollerabile, veramente intollerabile. Le sarebbe toccato andare a protestare all'ambasciata un'altra volta.

Non appena lui tornò con un San nervoso e imbarazzato al guinzaglio, lei gli disse, «Hai aperto la mia porta con una parola d'ordine. Io non sono stata informata che tu avessi il diritto di entrare giorno e notte».

Lui era tornato al suo grigiore militare. «Nossignore,» disse.

«Non farlo più. Non devi mai più mettermi le mani addosso! Ti avverto che, in caso contrario, ti farò male. Se qualcosa ti preoccupa, dimmi che cos'è e io risponderò come ritengo opportuno. Ora, per favore, vattene.»

«Con piacere, signora,» disse lui. Poi si girò e marciò fuori dalla porta.

«Oh, signora, oh, Nunzio,» disse San. «C'era una persona pericolosa, veramente pericolosa, sono veramente dispiaciuto, è vergognoso,» e continuò a balbettare. Lei finalmente lo convinse a dire chi pensava fosse questa persona, e cioè un dissidente religioso, uno dei vecchi credenti della religione originale del Gatay, che voleva cacciar via e ammazzare tutti gli stranieri e i miscredenti. «Uno schiavo?» chiese lei con interesse, al che lui parve scioccato. «Oh, no, no, una persona vera, un uomo… più che altro un debosciato, un fanatico miscredente! Uomini-coltello, si chiamano fra di loro. Ma è un uomo, signora… Nunzio, un uomo senza dubbio.»

La sola idea che lei potesse pensare che una proprietà la potesse toccare lo turbava quasi quanto il tentativo di aggressione, se tale si poteva considerare.

Mentre rifletteva, Solly cominciò a chiedersi se, dal momento che aveva rimesso il maggiore in riga a teatro, lui non avesse trovato una scusa per mettere lei al suo posto "proteggendola". Be', se ci avesse provato un'altra volta, si sarebbe trovato a testa in giù contro il muro di fronte.

«Rewe!» chiamò. La schiava apparve all'istante come sempre. «Uno degli attori sta per arrivare qua. Potresti farci un po' di tè o qualcosa del genere?» Rewe sorrise, disse di sì, e scomparve. Qualcuno bussò alla porta. Il maggiore aprì (doveva stare di guardia all'esterno) e Batikam entrò.

Non aveva previsto che il makil si sarebbe presentato con ancora indosso gli abiti da donna, ma era così che si vestiva anche fuori dalla scena, non in modo sfarzoso bensì con eleganza nei materiali delicati e fluenti e nelle sfumature scure che le donne svenevoli indossavano nella commedia. E poi rende alquanto piccante il mio costume da uomo, pensò Solly. Batikam non era bello quanto il maggiore, che era un uomo incredibilmente attraente finché non apriva bocca. Ma il makil possedeva una personalità magnetica, bastava guardarlo. Era di un bruno grigiastro, non del nero azzurrino di cui i possidenti andavano così fieri (nonostante ci fossero molte proprietà nere, come aveva già notato Solly, ed era ovvio, visto che ogni donna schiava era anche serva sessuale del proprio padrone). Un'intelligenza intensa e vivace e una grande sensibilità brillavano sul suo viso attraverso il trucco nero e stellare del makil, mentre Batikam si guardava intorno con una risata amabile e lenta, rivolta a lei, a San e al maggiore che stava in piedi vicino alla porta. Batikam rideva come una donna, un gorgoglio caldo, non la risata di un uomo. Tese le mani verso Solly. Lei si fece avanti e gliele strinse. «Ti ringrazio per essere venuto, Batikam.» E lui rispose, «Grazie per avermi invitato, inviato alieno».

«San, credo che qui ci debba essere la tua uscita di scena,» fece lei.

Solo l'indecisione sul da farsi avrebbe potuto frenare San finché lei parlava. Esitò un momento, quindi sorrise mellifluo e disse, «Sì, scusate. Le auguro un'ottima serata, Nunzio. A mezzogiorno di domani nell'Ufficio Miniere, vero?» Camminando all'indietro, andò a sbattere proprio contro il maggiore fermo come un palo sull'entrata. Lei gli diede un'occhiata, pronta a ordinargli di uscire alla svelta. Come si era permesso di ritornare dentro! Poi vide l'espressione sul suo viso. Per la prima volta la sua maschera imperturbabile si era incrinata, e quello che rivelava era disprezzo, disprezzo incredulo e disgustato, come se fosse stato obbligato a guardare qualcuno mentre mangiava un pezzo di merda.

«Esci!» gli disse, voltando le spalle a entrambi. «Andiamo, Batikam, l'unica intimità che mi resta è qui dentro,» aggiunse mentre guidava il makil nella sua stanza da letto.

Era nato dove i suoi antenati erano nati prima di lui, in una casa vecchia e fredda nelle colline sopra Noeha. Sua madre non aveva gridato nel darlo alla luce, essendo la moglie di un soldato e adesso la madre di un soldato. Lui era stato chiamato in quel modo in onore di un prozio ucciso quand'era di servizio su Sosa. Era cresciuto nella rigida disciplina di una famiglia povera di puro lignaggio veot. Suo padre, nei periodi di congedo, gli insegnava le arti che un soldato deve conoscere. Quando invece era in servizio, ci pensava il vecchio schiavo-sergente Habbakam a continuare le lezioni che iniziavano alle cinque del mattino, estate o inverno, con la preghiera, l'addestramento nel pugnale e la corsa campestre. Sua madre e sua nonna gli avevano insegnato le altre arti che un uomo deve conoscere, a cominciare dalle buone maniere prima che avesse due anni, passando poi dopo il secondo compleanno alla storia, alla poesia e allo stare seduti immobili senza parlare.


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