Lei perse tutto il giorno a corte. Aveva fatto ripetuti tentativi per ottenere il permesso di visitare le miniere e le immense fattorie del governo dall'altra parte delle montagne, da cui derivava il benessere del Gatay. Era stata ostacolata con altrettanta insistenza. Dal protocollo e dalla burocrazia del governo, aveva pensato dapprima, dalla loro scarsa volontà di lasciare che un diplomatico facesse qualsiasi cosa tranne andare in giro a presenziare a eventi inutili. Ma alcuni uomini d'affari avevano lasciato trapelare, a proposito delle condizioni di miniere e fattorie, qualcosa che le aveva fatto pensare che quei luoghi potessero nascondere un tipo di schiavitù molto più brutale di quella riscontrabile nella capitale. Quel giorno non era andata da nessuna parte, nell'attesa di appuntamenti che non erano stati rispettati. Il vecchio che aveva preso il posto di San fraintendeva la maggior parte di quello che lei diceva in lingua del Voe Deo, e anche quando Solly provava a parlare in gatayano, lui non ci capiva nulla, vuoi per stupidità vuoi per cattiva volontà. Il maggiore, per fortuna, restò via la maggior parte della mattina, sostituito da uno dei suoi soldati. Ma poi comparve a corte, rigido, silenzioso e con la mascella protesa, e rimase con lei fino a quando, stremata, decise di tornare a casa a farsi un bagno.

Batikam arrivò tardi, quella notte. Nel mezzo di uno degli elaborati giochi di fantasia con tanto di scambi di ruolo che aveva imparato da lui e che aveva sempre trovato così eccitanti, le carezze del makil diventarono sempre più lente, soffici come piume, tanto che lei tremò di desiderio insoddisfatto e, premendo il suo corpo contro quello dell'uomo, si accorse che si era addormentato. «Svegliati,» gli disse ridendo ma con tono gelido, e lo scosse un po'. Gli occhi scuri si spalancarono, confusi, pieni di timore.

«Mi dispiace,» gli disse subito, «torna a dormire, sei stanco. No no, è tutto a posto, è tardi.» Ma lui riprese quello che lei ora era costretta a considerare un lavoro, nonostante la sua tenerezza e abilità.

La mattina a colazione gli disse, «Mi vedi come un tuo pari, Batikam?»

Lui era stanco e sembrava più vecchio del solito. Non sorrise. Dopo un po' disse, «Cosa vuoi che ti dica?»

«Dì sì.»

«Sì,» rispose lui con calma.

«Non ti fidi di me,» fece lei amareggiata

Dopo un po' lui disse, «Oggi è il Giorno del Perdono. Nostra Signora di Tual venne agli uomini di Asdok, che avevano sguinzagliato i gatti da caccia dietro ai suoi seguaci. Lei giunse fra di loro cavalcando un grande gatto da caccia con la lingua di fuoco ed essi caddero in preda al terrore, ma lei li benedisse perdonandoli.» Il tono di voce e i gesti delle mani le facevano intravedere la storia mentre lui la raccontava. «Perdonami,» le disse.

«Tu non hai bisogno di alcun perdono.»

«Oh, tutti ne abbiamo bisogno, è per questo che noi Kamyiti ricorriamo a Nostra Signora di Tual, certe volte. Quando abbiamo bisogno di lei. Così, oggi sarai tu la Nostra Signora di Tual, nel rito?»

«Tutto quel che devo fare è accendere un fuoco, almeno così mi hanno detto,» replicò lei, ansiosa, e lui rise. Mentre il makil se ne andava, Solly gli disse che sarebbe andata a teatro a vederlo, la sera, dopo la festa.

La pista per le corse di cavalli, l'unica area piatta di una certa grandezza vicino alla città, era gremita di venditori urlanti e di stendardi che svolazzavano. Le auto reali passarono proprio in mezzo alla folla, che si divise come l'acqua e si richiuse dopo il passaggio. Per i notabili e i possidenti erano state erette alcune gradinate dall'aspetto instabile, con una zona protetta da tende per le signore. Lei vide un'auto sfrecciare verso gli spalti. Una figura avvolta in un tessuto rosso fu scacciata in fretta e furia dalle tende, e sparì. C'erano dei buchi da cui le signore potessero guardare la cerimonia? Scorse delle donne nella folla, ma erano solo schiave, proprietà. Capì anche che sarebbe stata nascosta fino al momento della cerimonia. Una tenda rossa l'aspettava di fianco alle gradinate, non lontana dalla zona coperta, dove i preti stavano salmodiando. Fu fatta scendere dall'auto e portata velocemente nella tenda da gentiluomini ossequiosi e determinati.

Le schiave nella tenda le offrirono tè, dolci, specchi, trucco e balsamo per capelli, e l'aiutarono a indossare il pomposo vestito di tessuto rosso e giallo, il suo costume per la breve impersonificazione di Nostra Signora di Tual. Nessuno le aveva detto chiaramente quello che doveva fare, e alle sue domande le donne risposero, «I preti te lo mostreranno, Signora, tu vai con loro. Tu devi solo accendere il fuoco. È tutto pronto». Aveva l'impressione che non sapessero molto di più di quello che sapeva lei stessa. Erano tutte ragazze carine, schiave di corte, chiamate a far parte dello spettacolo, indifferenti alla religione. Conosceva il simbolismo del fuoco che doveva accendere. In esso gli errori e i peccati potevano essere respinti e bruciati, dimenticati. Era un'idea simpatica.

Là fuori i preti si stavano scatenando. Diede un'occhiata. C'erano in effetti dei buchi nella tenda. Vide che la folla si era infittita. Nessuno che non si trovasse sulle gradinate o vicino ai cordoni poteva vedere alcunché, ma tutti agitavano stendardi rossi e gialli, mangiavano frittelle e facevano festa mentre i preti continuavano a cantare. Alla destra del suo piccolo campo visivo disturbato notò un braccio familiare. Naturalmente era quello del maggiore. Non l'avevano lasciato salire nell'auto con lei, doveva essere furioso. Ma era arrivato sin lì, e si era piazzato di guardia. «Signora, Signora,» dicevano le damigelle di corte, «adesso arrivano i preti,» e le ronzarono intorno accertandosi che la sua acconciatura fosse a posto e che quelle gonne maledette avessero la piega giusta. La stavano ancora lisciando e aggiustando mentre usciva dalla tenda. Abbagliata dalla luce del giorno, sorridente, cercò di tenersi eretta e dignitosa, come si conveniva a una dea. Non voleva certo rovinare la cerimonia.

Due uomini con paramenti sacerdotali la stavano aspettando proprio fuori dalla porta della tenda. Subito l'afferrarono per i gomiti, dicendo, «Da questa parte, da questa parte, Signora». Evidentemente non doveva cercare di capire quello che doveva fare. Senza dubbio consideravano le donne esseri incapaci di pensare, ma in quelle circostanze era un sollievo. I preti si affrettarono, più veloci di quanto lei potesse camminare con quella gonna attillata. Adesso erano giunti dietro le gradinate. Ma l'entrata non era dall'altra parte? Una macchina stava arrivando verso di loro facendo spostare la poca gente che le si parava davanti. Qualcuno gridò, i preti cominciarono improvvisamente a spingerla con violenza, cercando di mettersi a correre. Uno di loro strillò e le lasciò il braccio, essendo stato gettato a terra da un'ombra volante che l'aveva colpito all'improvviso. Lei si ritrovò nel mezzo di una rissa, incapace di liberare il braccio dalla morsa, con le gambe imprigionate nella gonna, e sentì un rumore, un rumore fortissimo che la colpì alla testa e gliela fece piegare. Non riusciva più a sentire né a vedere nulla, mentre si dibatteva accecata. Fu spinta a faccia in giù in un posto buio, con il viso premuto contro una soffocante oscurità scabrosa e le braccia bloccate dietro la schiena.

Una macchina in movimento. Passò molto tempo. Uomini che parlavano a bassa voce. La lingua del Gatay. Riusciva a malapena a respirare. Lei non lottò, non aveva senso. Le avevano legato braccia e gambe, coperta la testa con un sacco. Dopo un lungo intervallo fu sollevata come un cadavere, trasportata velocemente al piano di sotto e depositata su un divano o su un letto, con la stessa fretta disperata ma senza durezza. Lei rimase immobile. Gli uomini parlavano, quasi sottovoce. Non capiva nulla. In testa sentiva ancora quel rumore fortissimo. Era un rumore, vero? Era stata colpita? Si sentiva sorda come se stesse dietro un muro di cotone. Il tessuto del sacco continuava a incastrarsi in bocca, attaccandosi alle narici mentre cercava di respirare.


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