Non v'era alcuna femmina in vista, nella zona delle donne.

Ebbe inizio un esame, con i capi e gli anziani a sparare domande che richiedevano una risposta immediata, a volte da un solo ragazzo, a volte da tutti insieme, a seconda del gesto, specifico o generico, di chi interrogava. Si trattava di domande sui riti, sulle procedure, sulla morale. I ragazzi erano stati ben addestrati e fornivano le risposte con voce alta e sicura. Quello che si era azzoppato nel salto all'improvviso si mise a vomitare e svenne, afflosciandosi lentamente a terra in un mucchietto di stracci. Nessuno reagì, e altre domande continuarono a essergli rivolte, seguite da intervalli di penoso silenzio. Poco dopo il ragazzo si scosse, si alzò a sedere, rimase seduto per un po', rabbrividendo, poi fece uno sforzo e si alzò in piedi con gli altri. Le sue labbra cianotiche si mossero in risposta a tutte le domande, benché nessuna voce arrivasse all'uditorio.

Havzhiva seguì il rito solo in apparenza, mentre la sua mente vagava a ritroso, a un tempo e a un luogo lontani. Noi insegnamo quel che sappiamo, pensò, e tutta la nostra conoscenza è circoscritta.

Dopo l'interrogatorio venne l'imposizione del marchio: un unico taglio profondo dalla base del collo all'apice della spalla e giù per il lato esterno del braccio fino al gomito, eseguito con un punteruolo di legno duro e appuntito confitto a tranciare la pelle e la carne per lasciare, una volta rimarginato, la cicatrice in rilievo, segno di riconoscimento dell'adulto. Gli schiavi non dovevano aver avuto alcun utensile in metallo, rifletté Havzhiva, osservando con l'attenzione adeguata da parte di un forestiero e ospite. Dopo ogni braccio e ogni ragazzo, gli anziani concelebranti si fermavano per riaffilare il punteruolo strofinandolo su una grossa pietra piena di scanalature collocata sulla piazza. Le pallide labbra azzurrine dei ragazzi si aggricciavano scoprendo i denti candidi. I giovani spasimavano, prossimi al crollo. A uno di loro sfuggì un grido, ma si zittì subito premendosi la mano libera sulla bocca. Uno si morse il pollice finché non ne uscì tanto sangue quanto dal braccio lacerato. Terminata la marchiatura di un ragazzo, il Capo della Tribù lavava le ferite e le frizionava con unguento. Intontiti e barcollanti, i giovani erano di nuovo in fila, e adesso gli anziani si mostravano benevoli con loro, sorridenti, li chiamavano "uomini della tribù", "eroi". Havzhiva tirò un lungo sospiro di sollievo.

Ma poi venne condotto sulla piazza un gruppo di sei ragazze giovanissime, guidato attraverso il ponte sul fossato da donne anziane. Erano fanciulle, ornate di cavigliere e bracciali, senza null'altro addosso. Al loro apparire dal pubblico di uomini partì una grande ovazione. Havzhiva era sorpreso. Possibile che anche le donne potessero diventare membri della tribù? Questa almeno era una bella cosa, pensò.

Due delle ragazzine erano appena adolescenti, le altre ancora più pìccole: una di loro non doveva avere più di sei anni. Furono allineate di fronte ai ragazzi, con la schiena rivolta al pubblico. Dietro ciascuna di loro stava la donna velata che l'aveva guidata attraverso il ponte, dietro ciascun ragazzo stava uno degli anziani nudi. Mentre Havzhiva faceva da spettatore, incapace di staccare gli occhi e la mente da quel che vedeva, le fanciulle si sdraiarono supine sulla nuda terra grigiastra della piazza. Una di loro, più lenta nello sdraiarsi, fu spinta giù a forza dalla donna che le stava alle spalle. Gli anziani si fecero attorno ai ragazzi, poi ognuno si distese su una delle bambine, in un gran frastuono di incitamenti, grida di scherno e risate e un ritmato ah-ah-ah-ah! da parte degli spettatori. Le donne velate erano accoccolate accanto al capo di ciascuna ragazza. Una di loro tirò fuori un frustino, che posò a terra. Le nude natiche degli anziani si muovevano su e giù come in un coito, vero o simulato che fosse. Havzhiva non riusciva a distinguere. «È così che si fa! Guardate!» urlavano gli spettatori ai ragazzi fra battute, commenti e scoppi di risa. Gli anziani si rialzarono uno per uno, proteggendo ciascuno il proprio pene con singolare modestia.

Appena l'ultimo si fu alzato si fecero avanti i ragazzi. Ognuno si distese su una fanciulla e mosse le natiche in su e in giù, benché nessuno di loro, notò Havzhiva, avesse un'erezione. Gli uomini che lo attorniavano si afferrarono il pene e gridarono, «Ecco qua, prova il mio!», e continuarono così, fra incitamenti e cori, fino a che l'ultimo dei ragazzi si fu rimesso faticosamente in piedi. Le ragazze giacquero distese, a gambe aperte, come piccole lucertole morte. Iniziò un moto lento e minaccioso verso di loro da parte della folla degli uomini. Ma le anziane stavano già rimettendo in piedi le giovani, sorreggendole, sospingendole in fretta attraverso il ponte, seguite da un'ondata di acclamazioni e di scherno da parte del pubblico.

«Sono sotto effetto di una droga, sai,» spiegò l'uomo bruno e gentile che aveva condiviso il letto con Havzhiva, scrutandolo in volto. «Le ragazze. Non provano alcun dolore.»

«Sì, vedo,» disse Havzhiva, immobile al suo posto d'onore.

«Queste qui sono fortunate, privilegiate, a prender parte all'iniziazione. Sai, è importante che le ragazze perdano la verginità prima possibile. Devono essere possedute da più di un uomo. In modo da non avanzare pretese del tipo: "questo è tuo figlio", "questo bambino è figlio del Capo". È solo roba da streghe. Un figlio è una scelta. Essere un figlio non ha niente a che vedere con il sesso di una schiava. Le schiave dovevano impararlo molto presto. Ma adesso alle ragazze somministriamo una droga. Non è più come ai vecchi tempi, sotto il dominio delle Corporazioni.»

«Capisco,» disse Havzhiva. Guardò in viso il suo amico, pensando che la pelle scura indicava che nelle sue vene doveva scorrere molto sangue di razza padrona, che forse era proprio figlio di un possidente o di un Boss. Figlio di nessuno, uscito da un utero di schiava. Un figlio è una scelta. Ogni sapere è locale. Ogni sapere è parziale. A Stse, come nelle scuole dell'Ekumene, come negli agglomerati di Yeowe.

«Tu chiami ancora schiave le donne,» precisò. Il suo tatto, la sua sensibilità erano come congelati, e parlava per pura e semplice curiosità intellettuale.

«No,» replicò l'uomo bruno, «no, mi dispiace, è il linguaggio che ho imparato da bambino… chiedo scusa…»

«Non devi chiederla a me.»

Di nuovo Havzhiva aveva espresso in modo conciso e distaccato quello che aveva in mente. L'uomo fece una smorfia e rimase in silenzio, a testa bassa.

«Per favore, amico, riportami nella mia stanza,» disse Havzhiva, e l'uomo bruno gliene fu grato.

Parlava sottovoce nel suo taccuino automatico in hainese, al buio. «Non si può cambiare niente dall'esterno. Stando al di fuori, guardando dall'alto, con un colpo d'occhio generale puoi scorgere le linee del disegno. Vedi cosa è sbagliato, cosa manca. Vorresti aggiustarlo. Ma non puoi annodare i fili. Devi esserci dentro, tesserli. Tu stesso devi esser parte del tessuto.» Quest'ultima frase era nel dialetto di Stse.

Quattro donne stavano accucciate su uno spiazzo nella zona delle donne, che aveva attirato la sua curiosità per la levigatezza incalpestata: una specie di spazio sacro, aveva pensato. Si diresse verso di loro. Erano accucciate in modo sgraziato, stavano piegate in avanti, con l'indifferenza verso il proprio aspetto e l'incuranza dello sguardo degli uomini che aveva già notato nel settore delle donne. Le teste erano rasate, la pelle gessosa e pallida. Popolo della polvere, "polverosi", secondo il vecchio epiteto, ma a Havzhiva il loro colore ricordava più che altro la creta o la cenere. La sfumatura azzurrina delle palme e delle piante dei piedi e di tutti i punti in cui la pelle era più fine era quasi nascosta dalla terra che stavano manipolando. Parlavano in fretta e sottovoce, ma tacquero al suo approssimarsi. Due di loro erano vecchie, sfiorite, con ginocchia e piedi ossuti e grinzosi. Due erano giovani. Tutte quante gli lanciarono occhiate oblique di tanto in tanto, dopo che si fu acquattato vicino al bordo dello spiazzo levigato.


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