Aveva settantaquattro anni ed era andata da poco in pensione dall'ospedale in cui aveva insegnato, esercitato e curato l'amministrazione durante gli ultimi quindici anni. Non era cambiata molto dalla donna che aveva visto per la prima volta seduta al suo capezzale, sembrava solo rimpicciolita in tutta la persona. Non le erano rimasti molti capelli, e portava un fazzoletto dai colori vivaci annodato intorno alla testa. Si abbracciarono forte e si baciarono, e lei lo accarezzò e lo vezzeggiò senza poter fare a meno di sorridere. Non avevano mai fatto l'amore, ma c'era sempre stato tra loro un desiderio, un'attrazione reciproca, un senso di grande benessere nel toccarsi. «Guarda, guarda quanto grigio!» esclamò lei, carezzandogli i capelli. «Come ti dona! Entra a bere un bicchiere di vino con me! Come sta la tua araha? Quando arriverà? Hai attraversato la città con quella borsa? Sempre il solito pazzo!»
Le consegnò il regalo che le aveva portato, un trattato sulle Patologie tipiche di Werel-Yeowe a cura di un gruppo di ricercatori medici dell'Ekumene, e lei lo accettò con grande interesse. Per un certo tempo mandò avanti la conversazione soltanto fra un'occhiata e l'altra all'indice e al capitolo sul berlot, poi versò il pallido vino color arancio. Bevvero un secondo bicchiere. «Hai un bell'aspetto, Havzhiva,» disse lei, posando il libro e guardandolo con fermezza. I suoi occhi si erano appannati in un'opaca ombra bluastra. «Il ruolo di santo ti si addice.»
«Non esagerare, Yeron»
«Di eroe, allora. Non puoi negare di essere un eroe.»
«No,» disse lui ridendo, «sapendo cosa significa essere un eroe, non lo negherò.»
«A che punto saremmo senza di te?»
«Al punto in cui siamo ora…» sospirò. «A volte penso che stiamo perdendo quel poco che abbiamo conquistato. Questo Tualbeda della provincia di Detake, non sottovalutarlo, Yeron. I suoi discorsi grondano di misoginia e di pregiudizi contro gli immigrati, e la gente ci si abbevera…»
Lei fece un gesto, come per scacciare quel demagogo. «Non ci sarà mai fine,» disse. «Ma io ho sempre saputo cosa saresti stato per noi. Fin dal primo momento, fin da quando ho udito il tuo nome, addirittura. Lo sapevo.»
«Non mi hai lasciato molta scelta, sai.»
«Hai compiuto tu la scelta, amico.»
«Sì,» disse lui, sorseggiando il vino. «L'ho compiuta io.» Dopo un po' aggiunse, «Non sono stati in molti ad avere in sorte le scelte che ho avuto io. Come vivere, quale lavoro svolgere. A volte penso di essere stato capace di scegliere solo perché sono cresciuto dove tutte le scelte erano già state fatte per me».
«Così ti sei ribellato, e ti sei aperto la strada,» disse lei, annuendo.
Lui sorrise. «Non sono un ribelle.»
«Mah!» obiettò lei. «Non sei un ribelle? Tu, sempre in mezzo alla mischia, nel cuore stesso del nostro movimento per tutto il suo cammino?»
«Oh, sì, ma senza spirito di ribellione. Quello doveva essere il vostro spirito. Il mio compito era essere disponibile. Mantenere uno spirito di accettazione. È quanto ho imparato crescendo. Ad accettare. Non a cambiare il mondo, ma a cambiare la nostra anima, in modo che possa stare al mondo, che possa trovare il suo giusto posto nel mondo.»
Lei lo ascoltava, ma non sembrava convinta. «Stai esprimendo il modo di sentire di una donna,» disse, «gli uomini in genere vogliono cambiare le cose a loro piacimento.»
«Non gli uomini della mia gente,» ribatté lui.
Yeron versò a entrambi un terzo bicchiere di vino. «Parlami della tua gente. Ho sempre avuto timore a chiedertelo. Gli Hainesi sono così antichi, e così sapienti! Conoscono tanta storia, tanti mondi! E noi qui coi nostri trecento anni di miseria, delitti e ignoranza… Non hai idea di come tu ci faccia sentire piccoli piccoli.»
«Invece capisco,» disse Havzhiva. Dopo un po' aggiunse, «Sono nato in un posto chiamato Stse».
Le raccontò del villaggio, del clan dell'Altro Cielo, di suo padre che era suo zio, di sua madre l'Erede del Sole, dei riti, delle feste, degli dèi quotidiani, degli dèi inconsueti. Le parlò del passaggio di stato, le parlò della visita della storica, e di come lui aveva cambiato stato di nuovo, andando a Kathhad.
«Tutte quelle regole!» esclamò Yeron. «Cose complicate e inutili. Come nelle nostre tribù. Non c'è da meravigliarsi che tu sia fuggito.»
«Io sono semplicemente andato a imparare a Kathhad quello che non avrei potuto imparare a Stse,» disse Havzhiva sorridendo, «cioè che cosa sono le regole. Sono espressioni del bisogno che abbiamo gli uni degli altri. Ecologia umana. Cos'altro abbiamo fatto qui, in tutti questi anni, se non cercare di trovare un buon insieme di regole, un sistema che avesse senso?» Si alzò in piedi, stirò le braccia e riprese, «Sono ubriaco. Vieni a fare una passeggiata con me».
Uscirono nei soleggiati giardini del quartiere e passeggiarono lentamente lungo i sentieri fra gli orti e le aiuole fiorite. Yeron salutava con un cenno le varie persone intente a strappare le erbacce e a zappare, che alzavano gli occhi e la chiamavano per nome. Dava il braccio a Havzhiva, con decisione e orgoglio. Lui adeguava i suoi passi a quelli della donna.
«Quando devi stare seduto e quieto, desideri volare,» le disse, guardando la mano pallida, nodosa e delicata dell'amica posata sul suo braccio. «Quando devi volare, vorresti star seduto e quieto. Ho imparato a restar seduto e quieto, e ho imparato a volare con gli storici. Ma non avevo ancora trovato il mio equilibrio.»
«Poi sei venuto qui,» disse lei.
«Poi sono venuto qui.»
«E hai imparato?»
«A camminare,» rispose lui, «a camminare con il mio popolo.»
LIBERAZIONE DELLA DONNA
Un caro amico mi ha chiesto di scrivere la storia della mia vita, ritenendo che potesse essere di qualche interesse per genti di altri mondi e altri tempi. Sono una donna qualsiasi, ma ho vissuto in un periodo di grandi mutamenti e ho avuto il vantaggio di sperimentare sulla mia propria pelle il significato della servitù e quello della libertà.
Non ho imparato a leggere e a scrivere fino all'età adulta, ed è l'unica attenuante che accampo per i difetti della mia narrazione.
Sono nata schiava sul pianeta Werel. Il mio nome da bambina era Shomeke Radosse Rakam. Significa: proprietà della famiglia Shomeke, nipote di Dosse, nipote di Kamye. La famiglia Shomeke aveva una tenuta sulla costa orientale del Voe Deo. Dosse era mia nonna. Kamye è il Signore nostro Dio.
Gli Shomeke possedevano più di quattrocento schiavi, utlizzati in gran parte per coltivare i campi di gede, per condurre il bestiame al pascolo, nelle fabbriche, e come domestici nella Casa. La famiglia Shomeke aveva svolto un ruolo importante nella storia del Paese. Il nostro possidente era un influente uomo politico che si recava spesso nella capitale.
Gli schiavi prendevano nome dalle proprie nonne perché erano le nonne che allevavano i bambini. Le madri lavoravano tutto il giorno, e non c'erano padri. Le donne venivano sempre fatte accoppiare per la riproduzione con più di un uomo. E se anche un uomo fosse riuscito a conoscere il proprio figlio, non avrebbe potuto prendersene cura. In qualsiasi momento poteva essere venduto o affittato. Gli uomini giovani non erano destinati a restare a lungo nella stessa tenuta. Quelli più validi venivano affittati ad altre tenute o venduti a qualche fabbrica. Quelli più scadenti venivano ammazzati di lavoro.
Le donne non erano vendute di frequente. Le giovani erano destinate al lavoro e alla riproduzione, le vecchie alla cura dei piccoli e alla manutenzione del complesso. In alcune tenute le donne partorivano un figlio all'anno finché non morivano, ma da noi quasi tutte avevano solo due o tre bambini. Gli Shomeke apprezzavano il lavoro delle donne. Non volevano che gli uomini gli stessero troppo attorno. Le nonne erano d'accordo e perciò tenevano le giovani sotto stretta sorveglianza.