Gli affittati erano schiavi dati a nolo dai possidenti a una compagnia. Se erano impiegati in una grande impresa vivevano nel complesso dell'impresa, ma c'erano molti, moltissimi affittati, nella Città, che lavoravano per imprese piccole o gestite autonomamente, e occupavano edifici dati in locazione e chiamati complessi aperti. In questi edifici gli occupanti dovevano rispettare il coprifuoco, dato che le porte venivano chiuse per la notte, ma era l'unico vincolo, per il resto erano autonomi. Adesso noi ci trovavamo in uno di questi complessi aperti. Era sovvenzionato dalla Comunità. Alcuni degli occupanti erano affittati, ma molti erano come noi, gareot che erano stati schiavi. Abitavano lì più di un centinaio di persone in quaranta appartamenti. Il complesso era amministrato da alcune donne che io avrei definito nonne, ma che qui erano chiamate anziane.
Nelle tenute remote nello spazio e nel tempo, dove la vita era protetta da vaste estensioni di terra, da usanze centenarie e da una solida ignoranza, qualunque schiavo era alla completa mercé di qualunque padrone. Da uno di questi luoghi eravamo stati sbalzati in questa enorme folla di due milioni di persone, dove niente e nessuno aveva alcuna protezione contro l'imprevisto e la diversità, dove bisognava imparare più in fretta possibile le regole per sopravvivere, ma dove la nostra vita era nelle nostre mani.
Io non avevo mai visto una strada. Non sapevo leggere una parola. Avevo molto da imparare.
Ress me ne fece render conto immediatamente. Era una donna di città, pensava e parlava in fretta, era impaziente, aggressiva, suscettibile. Non riuscii a provare simpatia per lei, né a capirla, per molto tempo. Mi faceva sentire stupida, tarda, una cosa messa lì. Ero spesso arrabbiata con lei.
C'era della rabbia in me, adesso. Non avevo provato rabbia alcuna finché avevo vissuto a Zeskra. Non avrei potuto. Mi avrebbe divorato. Ora avevo spazio per questa sensazione, ma non sapevo come metterla a frutto. La tenni dentro di me, in silenzio. Keo e Ramayo condividevano una grande stanza, io una più piccola vicino alla loro. Non avevo mai avuto una stanza tutta per me. Da principio mi ci sentii sola e quasi spaurita, ma presto cominciò a piacermi. La mia prima azione compiuta liberamente, da donna libera, fu quella di chiudere la porta.
La sera, chiudevo la porta e studiavo. Di giorno, avevamo avviamento al lavoro di mattina, e scuola nel pomeriggio: lettura, scrittura, aritmetica, storia. Il mio apprendistato aveva luogo in una piccola bottega che produceva scatole di carta o di compensato per contenere cosmetici, candele, gioielli e così via. Venni istruita in tutte le varie fasi della costruzione e decorazione delle scatole, e nelle finezze del mestiere, dato che così era organizzato gran parte del lavoro nella Città, da artigiani esperti nei loro mestieri. Il negozio apparteneva a un membro della Comunità. I lavoratori più anziani erano degli affittati. Al termine del mio apprendistato anche a me sarebbe stato corrisposto un salario.
Fino ad allora fui mantenuta dal signor Erod, insieme a Keo, a Ramayo e ad alcuni uomini provenienti dal complesso di Shomeke che vivevano in un'altra casa. Erod non venne mai a trovarci. Credo che non se la sentisse di vedere nessuno di quelli a cui aveva dato la libertà in maniera così catastrofica. Ahas e Geu ci informarono che aveva venduto gran parte della terra di Shomeke e usato il denaro sia per la Comunità che per farsi strada in politica, dato che adesso esisteva un Partito Radicale che sosteneva l'emancipazione.
Geu venne a farmi visita qualche volta. Era diventato un uomo di città, brillante ed esperto. Avevo la sensazione, quando mi guardava, che pensasse al mio passato di donna di piacere a Zeskra, e non ebbi più voglia di frequentarlo.
Adesso invece ammiravo Ahas, che non avevo mai preso in considerazione ai vecchi tempi, sapendolo audace, risoluto e gentile. Era stato lui che ci aveva cercato, trovato, liberato. Avevano pagato i padroni, ma era stato lui a compiere l'impresa. Veniva spesso a trovarci. Era rimasto l'unico legame con la mia infanzia che non fosse stato spezzato.
E veniva da amico, da compagno, senza mai cercare di riportarmi alla mia condizione di corpo da usare. Adesso ero furiosa contro tutti gli uomini che mi guardavano come gli uomini guardano le donne. Ero furiosa contro le donne che mi consideravano da un punto di vista sessuale. Per la signora Tazeu ero stata solo il mio corpo. A Zeskra non ero stata altro che quello. Perfino per Erod che non aveva voluto toccarmi non ero stata che quello. Carne da toccare o da non toccare, a piacimento. Da usare o non usare, a scelta. Odiavo le mie parti sessuali, l'area genitale, e i seni, e le curve dei fianchi e del ventre. Fin da bambina ero stata vestita con abiti di tessuti soffici fatti per mettere in evidenza tutta la sensualità di un corpo femminile. Quando cominciai a essere pagata e a poter comprare o confezionare i miei abiti, mi rivestii di stoffe pesanti e rigide. Quello che più mi piaceva erano le mie mani, abili nel lavoro, e la mia mente, non particolarmente portata eppure capace di apprendere, a costo di impiegarci molto tempo.
Mi appassionava imparare la storia. Ero cresciuta senza storia. Non c'era niente a Shomeke o a Zeskra se non lo stato presente delle cose. Nessuno sapeva niente di tempi diversi in cui le cose erano state diverse. Nessuno sapeva di luoghi in cui le cose potessero essere diverse. Eravamo schiavi del tempo presente.
Erod aveva parlato di cambiamenti, in effetti, ma cambiamenti attuati dai possidenti. Noi dovevamo essere cambiati, dovevamo essere liberati allo stesso modo in cui eravamo stati posseduti. Attraverso la storia ebbi modo di vedere che la libertà è una cosa che si conquista, non che si riceve.
Il primo libro che lessi da sola era una storia di Yeowe scritta in maniera molto semplice. Parlava dei tempi della Colonia, delle Quattro Corporazioni, del terribile primo secolo, quando le navi trasportavano su Yeowe schiavi maschi e tornavano con pregiate materie prime. Gli schiavi costavano così poco che venivano fatti sgobbare a morte pochi anni nelle miniere, e sostituiti continuamente con nuovi carichi. «Oh, oh, Yeowe, se ci vai, mai più tornerai!» Poi le Corporazioni cominciarono a inviare schiave femmine per lavorare e per far razza, e nel corso degli anni gli schiavi si allargarono fuori dai recinti e formarono città, grandi città come quella in cui vivevo. Ma non governate dai padroni o dai Boss. Governate dalle proprietà, proprio come la nostra casa era governata da noi. Potevano noleggiare la loro libertà pagando alla Corporazione una parte dei loro guadagni, proprio come le proprietà a mezzadria pagavano i possidenti con parte del raccolto, in certe parti del Voe Deo. Su Yeowe questi schiavi erano chiamati liberti. Non gente libera, ma liberata. Allora, narrava la storia che stavo leggendo, cominciarono a pensare: perché non dobbiamo essere liberi del tutto? Così misero in atto la rivoluzione, la Liberazione. Cominciò in una piantagione di nome Nadami, e da lì dilagò tutt'intorno. Per trent'anni hanno combattuto per la loro libertà. E tre anni fa finalmente hanno vinto la guerra, hanno cacciato le Corporazioni, i possidenti, i Boss, fuori dal loro mondo! Hanno ballato e cantato nelle strade: libertà! libertà! Il libro che stavo leggendo (con grande sforzo, ma riuscivo a leggerlo!) era stato stampato laggiù, laggiù su Yeowe, il Mondo Libero. Gli Alieni lo avevano portato su Werel. Per me era come un libro sacro.
Chiesi ad Ahas come stavano andando le cose su Yeowe, e mi disse che stavano organizzando un proprio governo e scrivendo una Costituzione perfetta per cui gli uomini sarebbero stati tutti uguali davanti alla Legge.
Sulla rete, nei notiziari, dicevano che su Yeowe era la lotta di tutti contro tutti, che non c'era nessuna forma di governo, che la gente era alla fame, e che feroci membri delle tribù nelle campagne e bande di giovinastri nelle città si davano a razzie, che legge e ordine erano stati sovvertiti. Parlavano di corruzione, ignoranza, velleità destinate a fallire, un mondo condannato a morire.