Le schiere dei suoi sostenitori gli si erano rivoltate contro, attaccando la vecchia residenza del direttore della Compagnia delle Piantagioni Agricole di Yeowe, di cui Abberkam s'era impadronito. I sostenitori dell'Ekumene s'erano uniti alle forze ancora a lui fedeli per difenderlo e riportare l'ordine nella capitale. Dopo giorni di battaglie nelle strade, con centinaia di persone uccise negli scontri e altre migliaia nei tumulti in tutto il continente, Abberkam s'era arreso. L'Ekumene sosteneva il governo provvisorio per la dichiarazione di un'amnistia. I loro uomini l'avevano accompagnato nelle strade insanguinate e bombardate, nel silenzio più assoluto. La gente stava a guardare, la gente che s'era fidata di lui, la gente che un tempo lo riveriva, la gente che l'aveva odiato, lo guardò passare in silenzio, scortato dagli stranieri, gli Alieni che aveva cercato di cacciare dal suo mondo.
Ne aveva già letto sul giornale. Allora Yoss abitava nelle paludi da più di un anno. «Fategliela pagare,» aveva pensato, e poco altro. Non poteva sapere se gli Alieni erano un alleato sincero oppure solo una nuova specie di possidenti mascherati, ma adorava assistere alla rovina dei capi. I Boss wereliani, i capi tribali tanto pieni di sé o i demagoghi sbraitanti, che mordano pure la polvere! Lei ne aveva già mangiata abbastanza in vita sua.
Quando, qualche mese più tardi, al villaggio le avevano detto che Abberkam stava arrivare nelle paludi come confinato, come facitore d'anima, Yoss era rimasta interdetta, e per un attimo vergognosa di aver dato per scontato che le chiacchiere di quell'uomo fossero solo vuota retorica. Era un religioso, allora? Con tutta la sua lussuria, le orge, i furti, le trame di potere, gli assassinii? No! Da quando aveva perso denaro e potere, Abberkam era rimasto alla ribalta, dando spettacolo della propria povertà e devozione. Era assolutamente privo di vergogna. Yoss era stupita per l'acredine della propria indignazione. La prima volta che l'aveva incontrato le era venuta voglia di sputare su quei piedoni dalle grosse dita, calzati di sandali, che era tutto quel che poteva vedere di lui, visto che si rifiutava di guardarlo in faccia.
Ma poi, durante l'inverno, aveva sentito gli ululati tra gli acquitrini, in piena notte, nel vento gelido. Tikuli e Gubu avevano drizzato un orecchio, senza farsi spaventare da quel suono orripilante. Così, dopo un minuto, aveva riconosciuto una voce umana, un uomo che gridava a squarciagola – ubriaco? folle? – che ululava implorante, e si era dovuta alzare per andare da lui, nonostante il terrore che provava, ma lui non stava implorando aiuto da mano umana. «Signore, mio Signore, Kamye!» gridava, e guardando fuori dalla porta l'aveva visto sulla passerella, un'ombra contro le pallide nubi notturne, che camminava strappandosi i capelli e gridando come una bestia, come un'anima in pena.
Dopo quella notte aveva smesso di giudicarlo. Loro due erano uguali. La volta seguente che l'aveva incontrato, l'aveva guardato in faccia rivolgendogli la parola, e costringendolo a parlarle.
Non capitava spesso. Lui viveva assolutamente appartato. Nessuno attraversava le paludi per vederlo. Spesso la gente del villaggio arricchiva la propria anima dando a Yoss del cibo, le eccedenze del raccolto, gli avanzi, certe volte, nelle feste comandate, una pietanza cucinata apposta per lei, ma non vedeva mai nessuno portare qualcosa alla casa di Abberkam. Forse gli avevano già fatto offerte che lui era stato troppo orgoglioso per accettare. Forse avevano paura di offrire.
Portò allo scoperto le radici con la povera vanga dal manico corto che le aveva regalato Em Dewi, e ripensò ad Abberkam che ululava, e a come tossiva. Safnan era quasi morta di berlot, quando aveva quattro anni. Yoss aveva sentito quella tosse tremenda per settimane. Che Abberkam fosse andato al villaggio in cerca di medicine, l'altro giorno? C'era arrivato, o era tornato indietro?
Si mise addosso lo scialle, perché il vento s'era di nuovo raffreddato, stava arrivando l'autunno. Poi andò alla passerella e prese a destra.
La casa di Abberkam era tutta di legno, posata su una zattera di tronchi affondata nell'acqua torbacea della palude. Erano case molto vecchie, risalivano a duecento anni prima e anche più, quando nella vallata crescevano gli alberi. Era stata una casa colonica, molto più grande della sua capanna, un posto scuro e vasto col tetto bisognoso di riparazioni, qualche finestra sbarrata, le assi del porticato allentate mentre le calpestava. Disse il suo nome, lo ripeté più forte. Il vento fischiava tra le canne. Bussò, attese, spinse la porta pesante. Dentro era buio. Si trovava in una specie di vestibolo. Lo sentì che parlava nella stanza accanto. «Mai giù nell'accesso, nell'intento, toglilo, toglilo,» stava dicendo la profonda voce rauca, poi tossì. Lei aprì la porta. Per un minuto fu costretta ad aspettare che gli occhi si adattassero all'oscurità prima di riuscire a vedere dove si trovava. Era la vecchia stanza sul davanti della casa. Le finestre erano chiuse e sbarrate, il fuoco spento. Vide una credenza, un tavolo, un divano, ma accanto al camino c'era un letto. Le coperte sfatte erano scivolate per terra, e Abberkam era nudo sul letto, si agitava, vaneggiava per la febbre. «Oh, Signore!» esclamò Yoss. Quell'enorme ammasso nero e lustro di sudore, quei seni e quel ventre con le spirali di peli grigi, quelle braccia possenti e le mani che brancicavano, come faceva ad andargli vicino?
Ci riuscì in qualche modo, diventando meno timida e cauta appena lo scoprì indebolito dalla febbre e poi, quando tornò lucido, obbediente alle sue richieste. Lo ricoprì, gli mise addosso tutte le coperte che aveva e anche un tappetino che trovò per terra in una stanza inutilizzata, accese il fuoco più caldo che le riuscì e dopo un paio d'ore Abberkam cominciò a sudare, il sudore gli sprizzò fino a inzuppare lenzuola e materasso. «Sei esagerato,» lo rimbrottò in piena notte, spingendolo e tirandolo per farlo arrivare barcollante fino al divano decrepito, dove lui si stese avvolto nel tappeto affinché il letto si potesse asciugare al calore del fuoco. Mentre il Capo tossiva e rabbrividiva, Yoss gli preparò un infuso con le erbe che s'era portata dietro, e bevve la tisana rovente assieme a lui. Abberkam s'addormentò di colpo, e dormì come se fosse morto, senza farsi svegliare nemmeno dalla tosse che lo squassava. Anche Yoss s'addormentò di colpo, e quando si svegliò si ritrovò sulle pietre nude del focolare, con la fiamma che stava languendo, il giorno bianco alle finestre.
Abberkam giaceva come una catena montagnosa sotto il divano, che adesso lei notò essere alquanto sporco. Il respiro era rumoroso, ma profondo e regolare. Yoss si alzò un pezzetto per volta, tutta un dolore, accese il fuoco per scaldarsi, poi fece il tè e indagò lo stato della dispensa. Era rifornita dei generi essenziali, evidentemente il Capo si faceva arrivare i viveri da Veo, la più vicina città di una certa importanza. Si preparò una bella colazione, e quando Abberkam si alzò gli fece un altra tisana. La febbre era calata. Adesso il pericolo è l'acqua nei polmoni, pensò. L'avevano messa in guardia sull'acqua nei polmoni ai tempi di Safnan, e quello era un uomo di una sessantina d'anni. Se smetteva di tossire, era un brutto segno. Lo fece mettere seduto. «Tossisci,» gli disse.
«Fa male,» grugnì lui.
«Devi,» insistette lei, e lui tossì, coff, coff.
«Ancora!» gli ordinò, e lui tossì fin quando tutto il corpo fu scosso dai sussulti.
«Ottimo,» disse Yoss. «Adesso dormi.» E lui dormì.
Tikuli e Gubu dovevano morire di fame! Corse a casa, nutrì i suoi animaletti, li carezzò, si cambiò la biancheria, si sedette accanto al fuoco per una mezz'ora mentre Gubu le faceva le fusa sotto l'orecchio. Poi tornò attraverso la palude alla casa del Capo.
Per il crepuscolo il letto era asciutto, così lo rimise sotto le coperte. Si fermò per la notte, ma lo lasciò al mattino, dicendogli, «Torno stasera». Lui non disse una parola, era ancora molto ammalato, indifferente alla situazione sua e della donna.