— Le domande sono difficili da fare.

— Non vedo perché. Potrebbe semplicemente chiedere, chi mi servirà meglio, come primo ministro?… e lasciare le cose a questo punto.

— Già, potrebbe. Ma lui non sa cosa possa significare servirlo meglio. Potrebbe voler dire che l'uomo scelto abbandonerebbe la valle a Orgoreyn, o andrebbe in esilio, o assassinerebbe il re; potrebbe significare molte cose che il re non si aspetta, e non può accettare.

— Dovrebbe formulare con molta precisione la sua domanda.

— Sì. E allora ci sarebbero molte domande, vedete. E anche il re deve pagare il prezzo.

— Lo fareste pagare molto?

— Molto — disse Faxe, con tranquillità. — Colui che domanda paga quel che può permettersi di pagare, come sapete. In effetti, dei re sono venuti dai Profeti; ma non molto spesso…

— E se uno dei Profeti fosse lui stesso un uomo molto potente?

— Gli Abitanti delle Fortezze non hanno né rango, né condizione sociale. Io posso venire mandato a Erhenrang, per entrare nel kyorremy; ebbene, se io vado, riprendo il mio rango e la mia ombra, ma le mie profezie sono finite. Se avessi una domanda, mentre io servo nel kyorremy, andrei là, alla Fortezza di Orgny, pagherei il mio prezzo, e otterrei la mia risposta. Ma noi dell'Handdara non vogliamo risposte. È difficile evitarle, ma cerchiamo di non farlo.

— Faxe, non credo di capire.

— Ebbene, noi veniamo qui alla Fortezza soprattutto per imparare quali domande non si devono porre.

— Ma voi siete coloro che rispondono!

— Ancora non capite, Genry, per quale motivo abbiamo stabilito e pratichiamo la Profezia?

— No…

— Per dimostrare ed esibire la perfetta inutilità di conoscere la risposta alle domande sbagliate.

Riflettei a lungo su quanto mi era stato detto, mentre camminavamo fianco a fianco nella pioggia, sotto i rami oscuri della Foresta di Otherhord. All'interno del bianco cappuccio, il viso di Faxe era stanco e quieto, la sua luce era soffocata. Eppure m'incuteva sempre rispetto e timore. Quando mi guardava con i suoi occhi limpidi, gentili, e innocenti, mi guardava da una tradizione antica tredicimila anni: un modo di pensare e un modo di vivere così antichi, così ben stabiliti, così integrali e coerenti da dare a un essere umano il distacco da se stesso, l'autorità, la completezza di un animale selvaggio, una grande, strana creatura che vi guarda direttamente dal suo eterno presente…

— L'ignoto — disse la voce gentile di Faxe nella Foresta. — L'imprevisto, l'indimostrato, è tutto questo la base della vita. L'ignoranza è la base del pensiero. La mancanza di prove è il terreno dell'azione. Se fosse provato che non esiste un Dio, non ci sarebbe religione. Non ci sarebbero Handdara, né Yomesh, né dèi del focolare, niente. Ma anche se fosse provato che esiste un Dio, non ci sarebbe religione… Ditemi, Genry, che cosa è conosciuto? Che cos'è sicuro, prevedibile, inevitabile… la sola cosa certa che voi sappiate sul vostro futuro e sul mio?

— Che dobbiamo morire.

— Sì. In realtà c'è una sola domanda alla quale si può rispondere, Genry, e noi sappiamo già la risposta… La sola cosa che rende la vita possibile è la permanente, intollerabile incertezza: non sapere che cosa verrà dopo.

CAPITOLO SESTO

Una strada per Orgoreyn

Il cuoco, che arrivava sempre nella casa prestissimo, mi svegliò; il mio sonno è sempre profondo, e lui dovette scuotermi e dirmi nell'orecchio:

— Svegliatevi, svegliatevi, Lord Estraven, c'è un corriere venuto dalla Casa del Re!

Finalmente riuscii a capire le sue parole, e confuso dal sonno e dall'urgenza, mi alzai frettolosamente, e andai alla porta della mia camera, dove il messaggero aspettava, e così entrai completamente nudo e instupidito come un neonato nel mio esilio.

Leggendo il foglio che il corriere mi diede, pensai che questo l'avevo cercato, anche se non così presto. Ma quando dovetti osservare l'uomo inchiodare quel maledetto foglio sulla porta della casa, ebbene, in quel momento mi sentii come se egli dovesse infilare i chiodi nei miei occhi, e gli voltai la schiena e rimasi fermo, stordito e abbattuto e pervaso dal dolore, un dolore che io non avevo cercato.

Passato questo primo momento, decisi di provvedere a ciò che doveva essere fatto, e quando i gong del Palazzo batterono la Nona Ora, io ero già partito di là. Non c'era nulla che mi trattenesse per molto. Presi quel che potevo prendere. In quanto alle proprietà e al denaro che tenevo in banca, non avrei potuto riscuotere quel denaro senza mettere in pericolo coloro con i quali trattavo, e più questi uomini erano miei amici, peggiore era il pericolo che incombeva sopra di loro. Scrissi al mio vecchio kemmeri Ashe come avrebbe potuto ottenere gli interessi su certe pietre preziose, in modo che questi beni venissero conservati per nostro figlio, ma gli dissi di non tentare di mandarmi del denaro, perché Tibe avrebbe certo fatto sorvegliare la frontiera. Non potevo firmare la lettera. Se avessi chiamato qualcuno per telefono, chiunque egli fosse, lo avrei sicuramente fatto finire in prigione, e avevo fretta di andarmene, prima che qualche amico venisse a trovarmi, senza nulla sapere, e perdesse il suo denaro e la sua libertà come ricompensa di questa amicizia.

Partii verso ovest, attraversando la città. Mi fermai a un incrocio e pensai «Perché non dovrei andare a oriente, attraversando le montagne e le pianure, per ritornare in Kermlandia, come un povero a piedi, e così ritornare a Estre dove sono nato, quella casa di pietra su un impervio, ostile pendio di montagna; perché non tornare a casa?» A questo pensiero, per tre o quattro volte mi fermai, e mi voltai indietro, a guardare la strada. Ogni volta vidi tra gli indifferenti volti che popolavano le strade, quel viso che avrebbe potuto appartenere alla spia mandata a sorvegliare i miei movimenti, e a provvedere affinché io lasciassi Erhenrang, e ogni volta pensai a quale follia fosse l'idea di ritornare a casa. Tanto valeva uccidermi. Io ero nato per vivere in esilio, così sembrava, e l'unico modo per tornare a casa era la morte. Così proseguii verso occidente, e non mi voltai più indietro.

La grazia di tre giorni che mi era stata concessa mi avrebbe visto, se non ci fossero stati infortunii, al massimo nei pressi di Kuseben sul Golfo, ottantacinque miglia da Erhenrang. Molti esiliati hanno avuto una notte di preavviso, sull'Ordine del loro Esilio, e in questo modo una possibilità di trovare un passaggio su una nave in partenza lungo il Sess, prima che i capitani siano passibili di punizione per aver dato il loro aiuto. Una simile cortesia non era certo nella vena di Tibe. Nessun capitano di nave avrebbe osato prendermi a bordo, ora; ormai tutti mi conoscevano al Porto, essendo stato io a costruirlo per Argaven. Nessuna corriera mi avrebbe dato un passaggio, e da Erhenrang al più vicino confine ci sono quattrocento miglia. L'unica possibilità era quella di raggiungere Kuseben a piedi.

Il cuoco questo l'aveva capito. Lo avevo mandato via immediatamente, ma andandosene egli aveva preso tutto il cibo che era riuscito a trovare, e lo aveva impacchettato e ben riposto, per fornirmi il combustibile della mia corsa di tre giorni. Quella cortesia mi aveva salvato, e aveva salvato anche il mio coraggio, perché ogni volta che sulla strada mi ero fermato a mangiare di quei frutti e di quel pane, avevo pensato: «C'è un uomo che non mi considera un traditore; perché egli mi ha dato questo.»

Scoprii che è duro essere chiamato traditore. È strano vedere quanto sia duro, perché in fondo è un nome facile da dare a un altro uomo; un nome che rimane attaccato, che calza, che convince. Io stesso ne ero convinto per metà.

Arrivai a Kuseben al tramonto del terzo giorno, ansioso e con i piedi dolenti, perché negli ultimi anni passati a Erhenrang mi ero dato completamente alla ricchezza e al lusso, e avevo perduto gran parte dell'abitudine alle lunghe marce; e là, ad aspettarmi sulla porta della piccola città, trovai Ashe.


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