A meno che io non volessi trascorrere tutto l'anno nella Vecchia Karhide, dovevo ritornare alla Barriera d'Occidente prima che i passi del Kargav fossero chiusi. Perfino qui, sulla costa, c'erano state due leggere spruzzate di neve, nell'ultimo mese d'estate. Con una certa riluttanza, mi avviai di nuovo verso occidente, e giunsi a Erhenrang nei primi giorni di Gor, il primo mese dell'autunno. Argaven era ormai in ritiro nel palazzo estivo di Warrever, e aveva nominato Pemmer Hage rem ir Tibe suo Reggente durante il periodo di ritiro. Tibe stava già sfruttando al massimo la sua posizione d'autorità. Dopo un paio d'ore dal mio arrivo cominciai a vedere l'errore commesso nella mia analisi di Karhide… era già superata, antiquata… e cominciai anche a sentirmi a disagio, forse perfino in pericolo, a Erhenrang.
Argaven non era sano di mente; la sinistra incoerenza della sua mente incupiva l'umore della sua capitale; egli si nutriva di paura. Tutto il buono del suo regno era stato fatto dai suoi ministri e dal kyorremy. Ma egli non aveva fatto del male, non molto, almeno. Le sue schermaglie con i propri incubi non avevano danneggiato il suo regno. Suo cugino Tibe era un tipo completamente diverso, perché la sua pazzia possedeva una profonda logica. Tibe sapeva quando agire, e come agire. Lui non sapeva soltanto quando fermarsi.
Tibe parlava moltissimo alla radio. Estraven, quando era stato al potere, non l'aveva mai fatto, e la cosa non era di stile karhidiano: il governo karhidi non era uno spettacolo pubblico, normalmente; era coperto, nascosto e indiretto. Tibe, invece, si abbandonava a copiosi sfoghi oratorii. Ascoltando la sua voce in onda rividi quel sorriso dai lunghi denti e il viso mascherato da un reticolato di rughe sottili. I suoi discorsi erano lunghi e roboanti: lodi di Karhide, disprezzo di Orgoreyn, infamia sulle «fazioni sleali», discussioni sulla «integrità delle frontiere del Regno», conferenze di storia e di etica e di economia, tutto in tono cantilenante, graffiante, sovraccarico di emotività che si faceva acutissimo negli accenti di vituperio o di adulazione. Parlava moltissimo di orgoglio per la propria terra, di amore per la patria, ma pochissimo di shifgrethor, di orgoglio o di prestigio personali. Karhide aveva perduto a tal punto il proprio prestigio, nell'affare della Valle di Sinoth, da impedire di sollevare più la questione? No; perché Tibe parlava spesso, spessissimo della Valle di Sinoth. Conclusi che egli stava deliberatamente evitando ogni discorso sul shifgrethor, perché desiderava suscitare delle emozioni di natura più elementare, più incontrollabile. Voleva sollevare, dare vita a qualcosa della quale l'intero disegno del shifgrethor era un'elaborazione, una sublimazione. Voleva che i suoi ascoltatori fossero spaventati, e sdegnati, e in collera. I suoi temi non erano né orgoglio né amore, benché egli usasse perpetuamente quelle parole; come lui le usava, esse significavano autocompiacimento, presunzione e odio. Egli parlava anche molto di Verità, perché, secondo le sue parole, egli stava «andando diritto al cuore che si celava sotto la patina della civiltà».
È una metafora durevole, onnipresente, speciosa, quella della patina (o vernice, o pellicola, e quel che volete) che nasconde la realtà più nobile celata di sotto. Può nascondere subito una decina di discrepanze, di errori, di difetti. Una delle cose più erronee e più pericolose è l'implicazione secondo la quale la civiltà, essendo artificiale, debba essere innaturale: che sia l'opposto del primitivismo… Naturalmente non esiste una patina, il processo è semplicemente di crescita, e primitivismo e civiltà sono gradi della medesima cosa. Se la civiltà ha un opposto, questo è la guerra. Di queste due cose, ne avete o una, o l'altra. Non entrambe. Mi parve, nell'ascoltare i cupi discorsi di Tibe, quelle frasi che dovevano infiammare il popolo, che quel che egli stesse cercando di ottenere, grazie alla paura e alla persuasione, fosse costringere il suo popolo a cambiare una scelta operata ancor prima dell'inizio della sua storia, la scelta tra quegli opposti.
Il tempo era maturo, forse. Benché il loro progresso materiale e tecnologico fosse stato lento, per quanto considerassero scarsamente il «progresso» in se stesso, alla fine, negli ultimi cinque, o dieci, o quindici secoli, erano arrivati un po' più avanti della Natura. Non erano più totalmente alla mercé del clima spietato; un raccolto andato a male o povero non avrebbe più fatto morire un'intera provincia, né un cattivo inverno avrebbe più isolato ogni città. Su questa base di stabilità materiale Orgoreyn aveva costruito gradualmente uno stato centralizzato unificato e sempre più efficiente. Ora Karhide doveva riunirsi, e fare lo stesso; e il modo per indurre la nazione a fare questo non era quello di accenderne l'orgoglio, o potenziarne il commercio, o migliorarne le strade, le fattorie, le scuole, e così via; no, no, niente di tutto questo; questa era civiltà, solo civiltà, una patina, e Tibe la scartava con disprezzo. Lui cercava qualcosa di più sicuro, la maniera più sicura, rapida, e durevole per fare di un popolo una nazione: la guerra. Le sue idee a questo riguardo forse non erano precise, ma erano abbastanza solide. L'unico altro mezzo per mobilitare rapidamente e totalmente il popolo era una nuova religione; non ce n'era alcuna disponibile; così la guerra sarebbe dovuta bastare.
Inviai al Reggente un messaggio, nel quale gli citavo la domanda che avevo posto ai Profeti di Otherhord, e la risposta che avevo ottenuto. Tibe non rispose affatto. Allora andai all'Ambasciata Orgota, e chiesi il permesso di entrare in Orgoreyn.
Ci sono meno persone a condurre gli uffici degli Stabili dell'Ecumene su Hain, di quante non conducessero quell'ambasciata di una piccola nazione in un'altra piccola nazione, e tutte queste persone erano armate di chilometri di nastri e di registratori e di documenti. Erano lenti, erano accurati; non c'era nulla dell'arroganza trascurata e dell'improvvisa obliquità che contrassegnano la burocrazia karhidi. Aspettai, mentre loro compilavano i loro interminabili moduli.
L'attesa si fece piuttosto nervosa. Provai un certo disagio. Il numero delle Guardie di Palazzo e di agenti della polizia cittadina, nelle strade di Erhenrang, pareva moltiplicarsi di giorno in giorno; questi uomini erano armati, e stavano addirittura sviluppando una specie di uniforme. L'umore generale della città era grigio, cupo, benché gli affari andassero bene, la prosperità fosse generale, e il tempo buono. Nessuno voleva avere molto a che fare con me. La mia «locandiera» non conduceva più i curiosi a visitare la mia camera, ma piuttosto si lamentava per il continuo disturbo dovuto al fatto di essere ormai sospetto presso la «gente del Palazzo», e mi trattava ormai non come uno spettacolo bizzarro, e onorato, bensì come un sospettato politico. Tibe fece un discorso su un assalto nella Valle di Sinoth: «coraggiosi contadini karhidi, veri patrioti,» avevano varcato la frontiera a sud di Sassinoth, avevano assalito un villaggio Orgota, lo avevano bruciato, e ucciso nove abitanti del villaggio, e poi, trascinando i cadaveri con loro, li avevano gettati nel Fiume Ey, «la degna tomba,» disse il Reggente, «che tutti i nemici della nostra nazione troveranno!» Ascoltai questa trasmissione nella sala da pranzo della mia isola. Alcune persone apparvero cupe, nell'ascoltare, altre disinteressate, altre ancora soddisfatte, ma in quelle varie espressioni c'era un elemento comune, un piccolo guizzo muscolare, una piccola contrazione del viso, che non c'era mai stata, un'espressione ansiosa.
Quella sera un uomo venne nella mia camera, il mio primo visitatore da quando ero ritornato a Erhenrang. Era piccolo, snello, dalla carnagione liscia e dai modi schivi, timido, e indossava la catena d'oro dei Profeti, di uno dei Celibi.
— Sono amico di una persona che vi è stata amica — disse, con le maniere brusche dei timidi. — Sono venuto a chiedervi un favore, per amor suo.