— Ma l'Ecumene non governa, bensì coordina. Il suo potere è precisamente lo stesso dei suoi stati membri, e dei mondi che lo compongono. Alleandosi con l'Ecumene, Karhide diventerà infinitamente più importante, e meno minacciata, di quanto mai lo sia stata.
Estraven non rispose, per un poco. Restò seduto, con lo sguardo fisso sul fuoco, perduto tra le fiamme che scintillavano, sbiadivano e si alzavano, e ammiccavano, riflesse, dal suo boccale d'argento e dalla grande, lucida catena d'argento della sua carica, che teneva sulle spalle. La vecchia casa era silenziosa, intorno a noi. C'era stato un servo che aveva accudito alla nostra cena, ma i karhidiani, non avendo istituzioni di schiavitù o di vincoli personali, assumono i servizi, e non le persone, e i servi ormai se ne erano andati tutti, tornando nelle loro case. Un uomo come Estraven doveva avere delle guardie intorno a lui, da qualche parte, perché l'assassinio è un'istituzione viva e fertile in Karhide, ma io non avevo visto guardie, non avevo udito nulla. Eravamo soli.
Ero solo, con uno straniero, entro le mura di un oscuro palazzo tenebroso, in una strana città cambiata dalla neve, nel cuore dell'Era Glaciale di un pianeta alieno.
Tutto quel che avevo detto, quella notte e dal momento stesso in cui ero arrivato su Inverno, mi parve d'un tratto stupido e incredibile a un tempo. Come potevo attendermi che quest'uomo, o chiunque altro, credesse alle mie favole di altri mondi, altre razze, di un governo vago e benevolo perduto là, lontano, nei recessi dello spazio siderale? Era tutto assurdo, era tutto privo di senso. Io ero apparso in Karhide in una nave di strano tipo, e differivo fisicamente dai getheniani, sotto alcuni aspetti; questo doveva essere spiegato. Ma le mie spiegazioni erano assurde, offensive, incredibili. In quel momento, neppure io vi credevo.
— Io vi credo — disse lo straniero, l'alieno solo con me, e così forte era stato il mio accesso di alienazione personale, che sollevai lo sguardo, confuso e stordito, a fissarlo, sorpreso. — Temo che anche Argaven vi creda. Ma non si fida di voi. In parte perché non si fida più di me. Io ho commesso degli errori, sono stato sconsiderato e imprudente. Non posso chiedere più neppure la vostra fiducia, avendovi messo in pericolo. Ho dimenticato quel che è un re, ho dimenticato che un re, vedendosi con i propri occhi, è Karhide, ho dimenticato che cos'è il patriottismo e che il re è, per necessità, il patriota perfetto. Permettetemi di chiedervi questo, signor Ai: voi sapete, per esperienza diretta, che cos'è il patriottismo?
— No — dissi, scosso dalla forza di quell'intensa personalità che si rivelava, rovesciandosi d'un tratto completamente su di me. — Non credo di saperlo. A meno che per patriottismo non intendiate l'amore per il paese natale, l'amore per la propria patria, per quello che io conosco.
— No, non intendo parlare di amore, quando dico patriottismo. Intendo dire paura. La paura dell'altro. E le sue espressioni sono politiche, non poetiche: odio, rivalità, aggressione. Cresce dentro di noi, quella paura. Cresce dentro di noi, anno dopo anno. Noi abbiamo seguito la nostra strada per troppo tempo, siamo andati troppo oltre. E voi, che venite da un mondo cresciuto al di sopra delle nazioni, divenuto troppo adulto per considerare più le nazioni, ormai da molti secoli, voi che non riuscite quasi a comprendere ciò di cui io sto parlando, voi che venite a indicarci la nuova strada… — Si interruppe. Dopo qualche istante proseguì, di nuovo controllato, di nuovo freddo e cortese: — È a causa della paura che io rifiuto di appoggiare la vostra causa presso il re, ora. Ma non è paura per me, signor Ai. Io non agisco patriotticamente. Esistono, dopotutto, altre nazioni su Gethen.
Non avevo idea di che cosa volesse concludere, di dove volesse arrivare, ma ero certo che non intendeva quello che apparentemente intendeva. Di tutte le anime oscure, enigmatiche, indecifrabili che avevo conosciuto in quella triste, spoglia città, la sua era la più oscura. Non avrei giocato il suo gioco contorto, non mi sarei addentrato nel suo labirinto. Non diedi alcuna risposta. Dopo qualche tempo egli proseguì, in tono prudente:
— Se vi ho ben capito, il vostro Ecumene è dedicato essenzialmente all'interesse generale del genere umano. Ora, per esempio, gli Orgota hanno esperienza nel subordinare gli interessi locali all'interesse generale, mentre Karhide non ha quasi alcuna esperienza. E i Commensali di Orgoreyn sono quasi tutti uomini sani di mente, anche se la loro intelligenza non è grande, mentre il re di Karhide non è soltanto pazzo, ma anche piuttosto stupido.
Era chiaro che Estraven non era fedele a nessuno. Dissi, provando un senso di vago disgusto:
— Deve essere difficile servirlo, se così stanno le cose.
— Non sono sicuro di aver mai servito il re — disse il primo ministro del re. — E neppure di averne mai avuto l'intenzione. Io non sono servo di nessuno. Ogni uomo deve gettare la sua ombra…
I gong della Torre di Remny stavano battendo la Sesta Ora, mezzanotte, e presi quel suono come una scusa per andarmene. Mentre nel corridoio indossavo il mio soprabito, Estraven disse:
— Per il presente ho perduto l'occasione, perché suppongo che voi lascerete Erhenrang… — ma perché lo supponeva?… — Ma confido che possa venire un giorno in cui io potrò farvi di nuovo le mie domande. Ci sono tante cose che io voglio sapere. In particolare, sul vostro modo di parlare con la mente; non avete neppure cominciato a tentare di spiegarmelo.
La sua curiosità pareva autentica, genuina. Aveva la sfrontata improntitudine dei potenti. Anche le sue promesse di aiutarmi erano parse genuine. Risposi di sì, naturalmente, che l'avrei fatto in qualsiasi momento egli avesse voluto, e quella fu la fine della serata. Mi accompagnò fuori, attraverso il giardino, dove la neve era una coltre sottile nella luce della grande luna livida e sanguigna di Gethen. Quando uscimmo rabbrividii, perché era freddo, molto freddo, si era molto al di sotto dello zero; e vedendo questo lui mi chiese, con aria sorpresa e cortese:
— Avete freddo? — Per lui, naturalmente, quella era una mite serata di primavera.
Ero stanco e depresso. Gli dissi:
— Ho freddo da quando sono giunto su questo mondo.
— Come lo chiamate, questo mondo, nella vostra lingua?
— Gethen.
— Non gli avete dato un nome vostro?
— Sì, l'hanno fatto i Primi Investigatori. L'hanno chiamato Inverno.
Ci eravamo fermati sul cancello che dava all'esterno, tra le mura che racchiudevano il giardino. Fuori, il terreno e i tetti del Palazzo erano sagome fosche, cupe, che si ergevano qua e là, a diverse altezze, una massa confusa immersa nel fosco chiarore della neve notturna che scendeva sfarfallando dal cielo plumbeo, dove le nubi erano squarciate là dove galleggiava sanguigna la luna, e quella massa era rischiarata, a intervalli diversi, dalle feritoie dorate, confuse delle finestre. Là in piedi, sotto la stretta arcata, sollevai lo sguardo, chiedendomi se anche quella chiave di volta fosse stata murata con una calcina di ossa e di sangue. Estraven si congedò da me e mi voltò le spalle; non era mai troppo espansivo, nei suoi saluti e nei suoi addii. Io camminai per i cortili e i viali silenziosi del Palazzo, e i miei stivali scricchiolavano sulla neve sottile rischiarata dalla luna, e poi mi diressi verso casa, attraverso le strade profonde della città. Avevo freddo, ero sfiduciato, e ossessionato dalla perfidia, e dalla solitudine, e anche dalla paura.