Non ne avevo capito niente, ma preferii non dirlo. — Sì, ma, vede, capitano, se i nemici politici dell’onorevole Bonforte lo hanno rapito, perché tenerlo segreto? Avreste dovuto invece gridarlo ai quattro venti.
— Se fossimo stati sulla Terra, sì. E così pure a New Batavia o su Venere. Ma qui si tratta di Marte. Lei ha mai sentito parlare della leggenda di Kkkahgral il Giovane?
— Eh? No, non credo.
— Dovrebbe studiarsela; le servirebbe a capir meglio come ragionano i marziani. In breve, questo giovanotto Kkkah doveva trovarsi in un dato posto in un determinato momento, migliaia d’anni fa, per ricevere un’alta carica onorifica: come venir nominato baronetto. Per un motivo che, secondo il nostro modo di vedere, non poteva essere imputato a sua colpa, non riuscì ad arrivare in tempo. Era chiaro che l’unica cosa da fare, secondo l’etica marziana, era ammazzarlo. Ma poiché era giovane e aveva un passato encomiabile, alcuni progressisti presenti incominciarono a dire che lo si doveva perdonare concedendogli di ritentare la prova. Ma Kkkahgral non ne volle sapere. Approfittò del suo diritto di costituirsi pubblico accusatore contro se stesso, vinse la causa, e fu condannato a morte. Questo gesto ne fa il simbolo, o come diremmo noi il santo protettore, della correttezza formale marziana.
— Roba da matti!
— Crede proprio? Noi non siamo marziani. È una razza antichissima, e ha elaborato un sistema d’impegni e d’obblighi per ogni circostanza. Il rispetto delle forme e dell’etichetta portato all’estremo immaginabile. Al loro confronto, gli antichi giapponesi sembrerebbero degli anarchici. I marziani non hanno i concetti di "giusto" e "sbagliato", ma di "corretto" e "scorretto", elevati al quadrato, al cubo, e con sopra una spruzzata di selz… Ma, tornando al nostro attuale problema, la cosa ci riguarda perché il Capo stava per venire adottato proprio nel nido di Kkkahgral il Giovane. Comincia a capire, adesso?
No, non capivo ancora. Secondo me, quel tale Kkkah doveva venir fuori da un Grand Guignol della specie peggiore.
— È abbastanza semplice — continuò Broadbent. — Il Capo, senza dubbio, è il maggior esperto di costumi e di psicologia marziana che sia mai esistito. Sta lavorando da anni sui marziani, e l’adozione rappresenta il culmine della sua attività politica. Al mezzogiorno di mercoledì, ora locale, a Lacus Solis, avrà luogo la cerimonia dell’adozione. Se il Capo sarà presente ed eseguirà ogni gesto nel modo corretto, tutto andrà bene. Ma se non ci sarà (e non avrebbe nessuna importanza il motivo della sua assenza) il suo nome diverrà la vergogna di tutti i nidi, da un polo all’altro di Marte, e il maggior colpo politico interplanetario e interrazziale che sia mai stato tentato farà un colossale fiasco. Anzi, peggio ancora, sortirà l’effetto contrario a quello voluto. Il minimo che potrà accadere, secondo me, è che Marte si ritirerà dalla sua già relativa alleanza con l’Impero. Probabilmente ci saranno rappresaglie, e molti uomini saranno uccisi, forse tutti gli uomini ora presenti su Marte. Allora, gli estremisti del Partito dell’umanità riusciranno a far prevalere la loro linea di condotta, e Marte verrà annesso con la forza all’Impero, ma solo dopo che i marziani, fino all’ultimo, saranno stati uccisi. E tutte queste catastrofi deriveranno dal semplice fatto che Bonforte non si sarà potuto presentare alla cerimonia dell’adozione nel nido. I marziani prendono queste cose molto sul serio.
Dak se ne andò d’improvviso come era venuto, e Penelope Russell rimise in moto il proiettore. Mi venne in mente, con stizza, che avrei dovuto chiedergli che cosa frenasse i nostri nemici dall’uccidere me, semplicemente, se bastava impedire a Bonforte (in carne e ossa, o a chi ne faceva le veci) di presenziare a qualche barbara cerimonia marziana per scatenare tutto quel patatrac politico. Ma mi ero dimenticato di domandarglielo: forse perché temevo inconsciamente la risposta…
Mi ci volle poco per ritornare di nuovo ad applicarmi sul personaggio di Bonforte, osservandone i gesti e il modo di camminare, impadronendomi delle sue espressioni, provando a imitarne i toni di voce. Ero immerso nella fantasticaggine tiepida e distaccata della creazione artistica e mi sentivo già nei suoi panni.
Fu una repulsione invincibile a destarmi dal mio sogno ad occhi aperti, quando comparve l’immagine di Bonforte circondata di marziani che lo sfioravano con gli pseudoarti. M’ero talmente immedesimato nel personaggio che mi sembrava di averli addosso… e la puzza era insopportabile. Mi lasciai sfuggire un gemito soffocato e cercai di alzare le mani. — Ferma! - esclamai.
Le luci si accesero e le immagini scomparvero. La signorina Russell mi guardava con aria torva. — Che cosa diavolo le prende?
Cercando di dominare il tremito della voce, le dissi: — Signorina Russell… mi dispiace moltissimo… però, mi scusi… non proietti più quel nastro. Non sopporto i marziani.
Mi guardò come se non credesse alle proprie orecchie, ma con profondo disprezzo. — L’avevo detto — esclamò lentamente, con ironia — che questa grottesca macchinazione non sarebbe approdata a niente.
— Mi spiace proprio, ma è una cosa più forte di me.
Lei non rispose, ma scese laboriosamente dal suo "torchio". Non riusciva a camminare con la stessa disinvoltura di Dak, a 2 g, ma se la cavava abbastanza bene. Uscì senza dire niente, e sbattendosi la porta alle spalle.
Non ritornò. Al suo posto, quando la porta si aprì, entrò un uomo, dentro a quello che sembrava un gigantesco girello da bambini. — Come sta il nostro giovanotto? — esclamò. Era un tizio sulla sessantina, piuttosto pingue, dall’aria paciosa; non c’era bisogno di controllare il suo diploma di laurea per capire che la sua era un’affabilità del tipo "medico di famiglia".
— Oh, bene. Grazie, signore, e lei?
— Non male, ma preferisco le accelerazioni più leggere. — Diede un’occhiata in basso, verso il marchingegno che lo conteneva. — Le piace il mio bustino ambulante? Non sarà molto elegante, ma fa affaticare meno il cuore. A proposito, tanto per evitare possibili dubbi, io sono il professor Capek, medico personale dell’onorevole Bonforte. So già chi è lei. Ora, mi dica un po’, cos’è questa cosa che mi hanno raccontato su lei e i marziani?
Cercai di spiegarglielo come meglio potevo, in toni distaccati.
— Capisco — disse il professor Capek. — Però il capitano Broadbent mi avrebbe dovuto avvertire, perché se l’avessi saputo prima avrei cambiato i programmi del suo addestramento. Il capitano è una persona molto abile, a modo suo, ma qualche volta ragiona più coi muscoli che col cervello… È un estroverso talmente normale che a volte mi fa quasi paura. Ma per fortuna non c’è niente d’irreparabile… Signor Smythe, le chiedo il permesso d’ipnotizzarla. Le do la mia parola di medico che mi servirò dell’ipnosi solo per risolvere questa faccenda, e che non interferirò in alcun modo con l’integrazione della sua personalità. — Trasse di tasca uno di quegli orologi antiquati da taschino che sono un po’ il simbolo della professione medica e mi prese il polso.
— Le do senz’altro il mio permesso — gli risposi subito. — Però debbo farle notare, professore, che non servirà a nulla. È impossibile ipnotizzarmi. — Avevo imparato anch’io le tecniche ipnotiche all’epoca in cui presentavo il mio famoso numero di lettura del pensiero, ma coloro che me le avevano insegnate non erano mai riusciti a ipnotizzarmi. Un pizzico d’ipnotismo serve sempre, in numeri come il mio, specialmente se la polizia locale non è molto pignola nel far rispettare le leggi imposte dai sanitari per limitare l’esercizio abusivo della loro professione.
— Davvero? Be’, allora faremo quel che potremo. Pensi solo a rilassarsi, a mettersi comodo, e parleremo un po’ del suo guaio. — Teneva sempre in mano l’orologio e lo faceva dondolare, torcendo la catenina, anche dopo aver terminato di misurarmi le pulsazioni. Volevo dirgli qualcosa, perché l’orologio rifletteva la luce della lampadina che avevo proprio dietro la testa, ma pensai che si trattasse solo di una specie di tic nervoso di cui egli stesso non era a conoscenza: una cosa troppo banale, a dire il vero, per farla notare a un estraneo col rischio di offenderlo.