— Oh, quante storie! — rispose Corpsman. — Questa cabina è a prova di suono, e voglio solo assicurarmi che sia capace di farcela. Smythe, come va col marziano? Saprebbe snocciolarci qualche frase?
Io risposi con un singolo squittio polisillabico in alto marziano, una frase che significava pressappoco: — Le regole della buona creanza esigono che uno di noi due se ne vada immediatamente! — ma che in realtà ha un valore molto più profondo, perché tra i marziani è una sfida. Di solito, qualche tempo dopo che quella frase viene pronunciata, il nido di uno dei due viene notificato del decesso improvviso di un suo appartenente.
Non credo che Corpsman l’avesse capita, perché fece un sorrisino e disse: — Bravo, Smythe. Debbo proprio dirlo, ottimo lavoro.
Dak però aveva capito la frase. Prese Corpsman per il braccio e gli disse: — Bill, dagli un taglio, te lo ripeto per la seconda volta. Non rompere. Siamo sulla mia astronave, consideralo un ordine. Adesso, da questo momento in poi si fa finta di niente, senza altre concessioni alla curiosità.
Clifton, dal canto suo, aggiunse: — Dagli ascolto, Bill. Sai benissimo che eravamo d’accordo di farlo, no? Se cominciamo così, va a finire che qualcuno si sbaglia e si lascia sfuggire tutto in mezzo alla gente.
Corpsman lo guardò per un istante, poi scrollò le spalle. — Va bene, va bene. Volevo fare solo un piccolo controllo… dopotutto l’idea è mia. — Mi sorrise a denti stretti e disse: — Come va, onorevole Bonforte? Felice di rivederla.
C’era un briciolino d’enfasi nel modo con cui aveva detto "onorevole", ma feci finta di non accorgermene. Risposi: — Sono contento d’essere ritornato, Bill. Ha qualcosa di speciale da comunicarmi prima che scendiamo?
— Non mi pare. Una conferenza stampa a Goddard City dopo la cerimonia. — Notai che mi guardava per spiare la mia reazione.
Mi limitai a un cenno d’assenso col capo. — Molto bene.
Dak, invece, rimase scosso dalla notizia e si affrettò a voltarsi verso Clifton per dirgli: — Ma come, Rog, cosa succede? È proprio necessario? Sei stato tu a dare l’autorizzazione?
Clifton non riuscì a rispondere, perché Corpsman lo prevenne voltandosi verso di lui e dicendo: — Stavo per dire, prima che al nostro capitano saltasse la mosca al naso, che posso andare io alla conferenza stampa e dire ai giornalisti che il Capo si è stancato troppo alla cerimonia e gli è venuto il mal di gola. Oppure possiamo limitare la conferenza a domande scritte presentate con qualche ora d’anticipo: provvederò io a scrivere le risposte mentre la cerimonia si sta svolgendo, e poi gliele passerò perché le legga alla stampa. Visto che la somiglianza è così perfetta anche da vicino, penso che si possa rischiare. Che ne dice lei… "onorevole Bonforte"? Pensa di poterlo fare?
— Non vedo nessuna difficoltà nella cosa, Bill. — Pensavo che se fossi riuscito a ingannare i marziani per tutta la durata della cerimonia, sarei riuscito a incantare facilmente anche un branco di giornalisti umani, per tutto il tempo richiesto. Ormai m’ero perfettamente impadronito del tono e del frasario di Bonforte, e inoltre conoscevo le sue idee politiche quel tanto che bastava per azzardare qualche dichiarazione vaga.
Clifton però era preoccupato. Prima che potesse parlare si udì la campanella della nave, e una voce chiamò dall’altoparlante: — Il capitano è richiesto in sala comando. Quattro minuti.
In fretta, Dak disse: — Mettetevi d’accordo fra voi. Io devo andare a mettere questa nave sul giusto binario… e su in cabina c’è solo quel pivello di Epstein. — E scappò via come il fulmine.
— Ehi, capitano! — chiamò Corpsman. — Volevo dirle che…
Gli corse dietro e uscì dalla porta senza neppure voltarsi a salutare.
Roger Clifton andò a chiudere la porta che Corpsman aveva lasciato aperta, poi mi tornò accanto e mi chiese con calma: — Davvero vuol correre il rischio di partecipare alla conferenza stampa?
— Sta a lei decidere. Io, comunque, non ho nulla in contrario.
— Uhm… Va bene, rischiamo, allora. Però esigiamo domande scritte. Bill preparerà le risposte e le controllerò io stesso prima che lei le legga alla stampa.
— Benissimo — replicai. — Se lei riesce a trovare un modo per farmele avere con una decina di minuti d’anticipo, non ci sarà nessuna difficoltà. Sono rapidissimo a imparare le cose a memoria.
Mi squadrò. — Sono disposto a crederci… Capo. Va bene, dirò a Penny di passarle le risposte subito dopo la cerimonia. Con la scusa di andare alla toletta un momento, lei potrà avere tutto il tempo necessario per studiarle.
— Mi pare che così possa andare bene.
— Sì, anch’io… Confesso che dopo averla vista, mi sento molto, molto meglio. Posso fare qualcosa per lei?
— No, grazie, Rog… cioè, sì. Si sa mica niente di… di lui?
— Come? Ah… be’, sì e no. È sempre a Goddard City, di questo ne siamo sicuri. Non l’hanno portato via da Marte, e neppure l’hanno trasferito in qualche altra zona del pianeta. Almeno questo siamo riusciti a impedirlo, sempre che ne avessero l’intenzione.
— Ma come!? Goddard City non è molto grande. Meno di centomila abitanti, se non sbaglio. Come mai non l’avete trovato? C’è qualche difficoltà?
— La difficoltà è una sola: non osiamo ammettere che lei, cioè lui, sia sparito. Appena messa a posto questa faccenda dell’adozione, lei si nasconderà e noi annunceremo che il Capo è scomparso, che l’hanno rapito… come se il rapimento fosse avvenuto solo allora. Faremo setacciare la città palmo a palmo. Le supreme cariche cittadine sono ora tenute da funzionari del Partito dell’umanità, ma ci aiuteranno… dopo la cerimonia. Sarà la cooperazione più volenterosa che si sia mai vista, perché avranno una fretta infernale di ritrovare Bonforte prima che tutto il Nido di Kkkahgral cali su di loro e gli distrugga l’intera città sotto gli occhi.
— Oh, ogni volta imparo qualcosa di nuovo sulla psicologia e sull’etica dei marziani.
— A chi lo dice!
— Rog. Uhm… Mi dica un po’, cosa le fa credere che lui sia ancora vivo? Non farebbero più in fretta… e non correrebbero meno rischi… ammazzandolo, semplicemente? — Mi veniva in mente un certo ricordo spiacevole: la facilità con cui ci si poteva sbarazzare di un cadavere ingombrante, ammesso di non avere scrupoli.
— Sì, credo di capire la sua obiezione. Ma anche questo va collegato al concetto marziano di "correttezza". — Usò la parola marziana. — La morte è l’unica giustificazione accettabile per non avere rispettato un obbligo. Se lo ammazzassero, semplicemente, i marziani lo adotterebbero dopo la morte, e poi l’intero nido, e magari tutti gli altri nidi di Marte, si solleverebbero per vendicarlo. Ai marziani non importa nulla se tutta la razza umana muore, o se viene uccisa, ma uccidere un uomo apposta per impedirgli di partecipare alla cerimonia dell’adozione è un altro paio di maniche. Si tratta sempre di obblighi e di correttezza: per taluni aspetti, la reazione di un marziano a una data situazione è una cosa automatica, fa pensare a una reazione istintiva. Non lo è, naturalmente, perché i marziani sono maledettamente intelligenti. Però ogni tanto fanno le cose più impensate. — Corrugò la fronte e disse: — A volte vorrei non avere mai lasciato il Sussex.
La campanella dell’astronave pose fine alla conversazione, costringendoci a sdraiarci di corsa sulle cuccette. Dak era arrivato al punto voluto; il traghetto per Goddard City era già in orbita ad aspettarci quando entrammo in caduta libera. Ci trasferimmo su di esso tutt’e cinque, occupando ogni cuccetta disponibile: anche questo era stato previsto, perché il Commissario Residente avrebbe desiderato venire su per salutarmi, ma ne era stato dissuaso da una comunicazione di Dak che lo avvertiva che, appunto, non c’era posto.
Cercai di guardare la superficie marziana mentre scendevamo sul pianeta, perché l’avevo vista solo di sfuggita dalla cabina di controllo della Tom Paine: si presumeva che io fossi già stato su Marte diverse volte, e perciò non potevo mostrare la normale curiosità di qualsiasi turista. Non riuscii però a vedere molto: il pilota del traghetto non voltò il razzo, per farci vedere il panorama, fino al momento dell’atterraggio, e nella parte finale del volo io fui troppo occupato a infilarmi la maschera dell’aria per guardare.