— Ho passato un brutto momento quando quel tizio ha riconosciuto il discorso che stavo scopiazzando.

— Sì, ma è riuscito a superare l’inciampo. È stata una vera ispirazione. Sembrava… sembrava proprio lui.

— C’era per caso tra i presenti qualcuno che avrei dovuto salutare per nome?

— Non proprio. Forse uno o due, ma non s’aspettavano certo che lei lo facesse, visto che aveva tanta premura.

— Per un attimo mi sono sentito con le spalle al muro. Quel pignolo di un ufficiale e i suoi passaporti! A proposito, Penny, mi sembrava più giusto che li tenesse lei, piuttosto che Dak.

— No, non è vero che li abbia Dak. — Frugò nella borsetta e mi mostrò il suo documento. — Io il mio l’avevo, ma non ho osato dirlo.

— Come?

— Lui aveva il suo in tasca quando lo hanno rapito. Non ci siamo fidati di chiederne la sostituzione… date le circostanze.

Mi sentii improvvisamente tremare le ginocchia.

Non avendo ricevuto altre istruzioni da Dak o da Rog, continuai a recitare la commedia a bordo del traghetto e al mio arrivo sulla Tom Paine. Il resto non fu difficile. Mi limitai a recarmi direttamente nella cabina principale, e passai lunghe ore infelici in caduta libera, mangiandomi le unghie e chiedendomi cosa stesse succedendo nel frattempo sul pianeta. Con l’aiuto di qualche compressa antinausea riuscii finalmente a cadere in un sonno agitato, il che fu poi peggio, perché passai da un incubo all’altro. Mi vedevo tra la folla, senza calzoni, con giornalisti che puntavano su di me il microfono, guardie che mi toccavano sulla spalla, marziani che prendevano la mira per fulminarmi con la verga. Tutti questi personaggi che abitavano i miei incubi sapevano perfettamente che ero una controfigura: stavano semplicemente discutendo tra loro chi avesse il privilegio di tagliarmi a fette per farmi scomparire nell’oubliette.

Mi svegliò lo scampanellio dell’avviso d’accelerazione. La voce baritonale di Dak stava tuonando: — Primo e ultimo avviso! Un terzo di g! Un minuto! — M’affrettai a trascinarmi sulla cuccetta e a tenermi forte. Mi sentii subito meglio quando vennero accesi i motori; un terzo di g non è molto, fa un po’ l’effetto di stare su Marte, credo, ma è sufficiente a mettere a posto lo stomaco e a far distinguere il pavimento dal soffitto.

Qualche minuto dopo, Dak venne a bussare; entrò mentre mi recavo ad aprirgli la porta. — Come va, Capo?

— Salve, Dak. Non le dico come sono felice di rivederla.

— Mai quanto me — rispose lui, con voce stanca. — Posso sdraiarmi lì? — mi chiese, indicando la cuccetta.

— Faccia pure.

Lui si sdraiò con un gran sospiro. — Accidenti, sono a pezzi. Sento che potrei dormire per una settimana di fila… e penso che lo farò.

— Allora siamo in due. Dica… l’avete portato a bordo?

— Sì, e che gincana!

— Lo immagino. Eppure credo sia stato più facile farlo in un piccolo porto come questo, privo di sorveglianza, che organizzare tutta quella montatura per farmi uscire dal Campo Jefferson.

— Eh? No, qui è stato molto più difficile.

— Cosa?

— Certo. Qui tutti si conoscono… e si parlano. — Dak fece un sorriso storto. — L’abbiamo portato a bordo dentro una cassa con l’etichetta: "Gamberi marziani congelati". Abbiamo perfino dovuto pagare le tasse doganali.

— Dak, come sta?

— Be’… — cominciò lui, aggrottando la fronte. — Il professor Capek afferma che si ristabilirà completamente… che è solo questione di tempo. Riuscissi solo a mettere le mani addosso a quegli schifosi! — esclamò con ferocia. — C’è da buttarsi per terra a piangere, a vedere come l’hanno conciato… eppure dobbiamo lasciarli andare senza far niente… per il suo bene.

A guardarlo attentamente, lo stesso Dak sembrava sul punto di buttarsi per terra a piangere, mi pareva. Con tutta la gentilezza di cui fui capace, gli dissi: — Penny mi ha raccontato che l’hanno picchiato da far spavento. Ha ferite gravi?

— Eh? No, no, lei deve aver frainteso le parole di Penny. A parte il fatto che era sporco da far schifo e che aveva la barba di una settimana, fisicamente non aveva un graffio addosso.

— Credevo che l’avessero picchiato — ribattei, sorpreso. — M’ero immaginato che lo avessero battuto con una mazza da baseball o qualcosa di simile.

— Sarebbe stato preferibile. Cosa vuole che siano poche ossa rotte? No, no… probabilmente Penny si riferiva a quello che gli hanno fatto al cervello.

— Oh… — balbettai, con un profondo senso di malessere. — Lavaggio del cervello?

— Sì. Sì e no. Certo non intendevano farlo parlare, perché non aveva alcun segreto da nascondere di possibile importanza politica. Ha sempre agito alla luce del sole, lo sanno tutti. Devono avere usato le droghe solo per tenerlo prigioniero senza fastidi, per evitargli di fuggire.

Continuò: — Il professore dice che devono avergli dato la dose minima giornaliera, quel tanto che bastava per tenerlo tranquillo, fino a poco prima di lasciarlo libero. Poi gli hanno iniettato una dose da istupidire un elefante. I suoi lobi frontali devono esserne inzuppati come una spugna da bagno.

Mi sentivo così male che ero felice di non aver mangiato niente. Avevo letto un articolo, una volta, sull’argomento. Erano cose talmente orribili da affascinarmi. Secondo me c’è qualcosa d’immorale e di degradante in senso assoluto, cosmico, nell’alterare la personalità d’un individuo. A paragone l’assassinio è una cosa pulita, un peccatuccio veniale. "Lavaggio del cervello" è un termine che ci viene dal movimento comunista del Tardo Medioevo. Nella sua forma iniziale, erano vari metodi che servivano a spezzare la volontà d’un uomo con torture fisiche e morali. Ma quei primi metodi richiedevano mesi per giungere a un risultato. Più tardi fu scoperto un sistema "migliore", capace di trasformare in pochi secondi un uomo in uno schiavo balbettante, mediante la semplice iniezione di alcuni derivati della cocaina nei lobi frontali del soggetto.

Questa pratica disumana era stata inventata, all’origine, con uno scopo perfettamente legittimo: quello di calmare i pazienti mentali acuti e così poterli sottoporre alla psicoterapia. Usata in quel modo era un’invenzione nobile, una conquista dell’umanità, perché veniva a sostituire la lobotomia… "Lobotomia" è un termine fuori uso, oggi, come "cintura di castità", ma è la parola con cui si indicava l’andare a ficcare un bisturi nell’interno del cervello di una persona, in modo tale da distruggere la sua personalità senza ucciderlo. Sì, facevano anche cose simili: del resto, nei secoli precedenti, usavano picchiare i malati mentali per "scacciare il diavolo"…

I comunisti svilupparono la nuova tecnica del lavaggio del cervello mediante droghe, fino a farla diventare molto efficiente. Poi, quando il comunismo decadde, le Unioni della Fratellanza la rispolverarono, apportandovi perfezionamenti tali da riuscire a dosarne accuratamente gli effetti. Si andava dalla dose minima, quella che rendeva un uomo leggermente più suscettibile a lasciarsi suggestionare da un capo, alla dose massima, quella che lo faceva diventare una massa di protoplasma priva di ragione… e tutto veniva fatto nel dolce nome della "Fratellanza". In fin dei conti, che fratellanza ci può essere se un tizio è talmente individualista da voler tenere per sé i propri segreti? E quale modo migliore di assicurarsi che non abbia segreti, che infilargli un ago tra gli occhi e iniettargli nel cervello una droga che gli faccia "cantare" tutto? "Non si può far la frittata senza rompere le uova" e quel che segue: i soliti sofismi con cui si giustificano gli scellerati.

Naturalmente, ormai da moltissimo tempo, la pratica era stata messa al bando per legge, salvo specialissimi casi terapeutici per i quali occorreva il permesso del giudice. Tuttavia i criminali non si sono mai fatti scrupolo di usarla, e neppure i poliziotti sono perfettamente immacolati al riguardo, in quanto la droga fa effettivamente parlare qualsiasi prigioniero e non lascia su di lui alcuna traccia. Si può perfino ordinare alla vittima di dimenticare che gli è stata fatta l’iniezione.


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