— Stia pure tranquillo — disse Rog. — Come le dicevo, probabilmente non ci sarà bisogno che si rechi lei all’udienza. Solo, desideriamo avere le spalle coperte anche per questa eventualità. Quello che mi premeva di farle capire, è che un governo provvisorio non dà grattacapi di sorta. Non vara leggi, non fa mutamenti nella politica. E poi m’incaricherò io di tutto. Tutto ciò che lei dovrà fare… e non è affatto detto che debba farlo… è di comparire all’udienza formale da re Guglielmo, e magari mostrarsi a una conferenza stampa, massimo due, con già in tasca le risposte preparate in anticipo, se lui tardasse tanto a guarire. Quanto lei ha già fatto era molto più difficile e impegnativo. Inoltre lei sarà pagato lo stesso, sia che si presenti al re o no.
— Accidenti! La paga non c’entra! È che… con le parole di un famoso personaggio della storia dello spettacolo, "Includetemi… fuori".
Prima che Rog potesse rispondere, Bill Corpsman entrò come un razzo nella cabina, senza bussare. Ci guardò, poi chiese bruscamente a Clifton: — Gliel’hai detto, Rog?
— Sì — rispose lui. — Non vuole.
— Come? Sciocchezze!
— Non sono affatto sciocchezze — protestai. — E a proposito, Bill, la porta da cui lei è entrato ha un bellissimo battente su cui bussare. Tra noi gente di teatro c’è l’abitudine di battere due colpi e di dare una voce: "È presentabile?". Vorrei che lei se ne ricordasse.
— Oh, quante storie! Abbiamo premura. Cosa sono queste ciance che lei si rifiuta?
— Non sono ciance — tagliai corto. — Non è il contratto da me firmato inizialmente.
— Un corno! Forse lei è troppo ritardato di mente per rendersene conto, Smythe, ma ormai ci è dentro fino al collo; non può tirarsi indietro con tanta facilità. Potrebbe risultare una cosa poco igienica per lei…
Mi avvicinai a lui e gli afferrai un braccio. — Cos’è? Una minaccia? Se è così, allora usciamo fuori e discutiamone da uomini.
Liberandosi dalla mia stretta, lui ribatté: — Fuori dove? Siamo su un’astronave! Non la credevo così ottuso. Non ha ancora capito di essere stato lei a causare tutto il pasticcio?
— Come sarebbe a dire?
— Bill è convinto — mi spiegò Clifton — che le dimissioni del governo Quiroga siano dovute al discorso pronunciato ieri da lei. Può anche darsi che non abbia tutti i torti, comunque la cosa non conta. Bill… non puoi cercare d’essere un po’ più educato? A litigare tra noi non si approda a niente.
L’ipotesi d’essere stato io a far rassegnare le dimissioni a Quiroga mi aveva talmente sorpreso da farmi svanire il desiderio di spaccare i denti a Corpsman. Dicevano sul serio, quei due? Sì, avevo pronunciato un bellissimo discorso, ma possibile che un discorso avesse una potenza simile?
Be’, in tal caso, si trattava di quel che si dice un "servizio in giornata"!
Dissi, meditabondo: — Bill, se capisco bene, lei si sta lamentando perché il mio discorso era più efficace del dovuto?
— Come? Perdio, no! Quel discorso non valeva un fico.
— Davvero? Mi pare d’avvertire nelle sue parole una "contraddizion che nol consente". Lei sta affermando che un discorso che non valeva un fico è stato talmente efficace da far rassegnare le dimissioni per lo spavento al Partito dell’umanità. È questo che lei intende dire?
Corpsman era evidentemente seccato. Fece per rispondere qualcosa, e scorse che Clifton faceva una smorfia per non ridere. Si accigliò, cercò di nuovo di parlare, e alla fine scosse le spalle borbottando: — Va bene, granduomo, non insisto; le dimissioni di Quiroga non hanno niente a che vedere con il discorso. Comunque, c’è del lavoro da fare. Cos’è questa storia che lei non è più disposto a reggere la sua parte del peso comune?
Lo guardai, tentando di dominarmi, e fu di nuovo l’influenza di Bonforte ad aiutarmi. Recitare la parte di un personaggio dal temperamento tranquillo tende a dare all’attore una maggiore calma interiore. — Bill, anche qui c’è una contraddizione. Lei mi ha fatto capire chiaramente, fin troppo, che mi considera solo uno stipendiato qualunque. Perciò io ho solo gli obblighi del lavoro per cui mi avete stipendiato, e quel lavoro ormai è finito. Lei non mi può assumere per altri lavori se non sono disposto ad accettarli. E per quello che lei mi sta proponendo ora, non sono disposto.
Stava per rispondere qualcosa, ma l’interruppi: — Non c’è altro. Adesso se ne vada: lei non è il benvenuto, in questa cabina.
Rimase piuttosto sorpreso. — Ma chi diavolo si crede d’essere, da poter dare ordini qui dentro?
— Io sono una nullità. Un’assoluta nullità, come lei stesso mi ha fatto notare più volte. Ma questa è la mia cabina personale, assegnatami dal comandante. Quindi se ne vada, prima che la butti fuori. I suoi modi non mi piacciono.
— Vattene, Bill — disse di rincalzo Clifton, senza perdere la calma. — Lasciando da parte qualsiasi altra considerazione, questa è per ora la sua cabina privata. Quindi è meglio che tu te ne vada. — Rog ebbe un attimo d’esitazione, prima di aggiungere: — Sarà anzi meglio che ce ne andiamo tutt’e due, visto che non caviamo un ragno dal buco. Con permesso… Capo?
— Certamente.
Quando se ne furono andati, per vari minuti rimasi seduto a pensare a quanto era successo. Mi spiaceva d’essermi lasciato trascinare da Corpsman a quel battibecco; non era stata una cosa grave, ma neppure molto dignitosa. Però provai a ripetermi la scena nella mente, e mi convinsi che la mia personale avversione per Corpsman non aveva assolutamente influito sulla mia decisione. Quella decisione l’avevo già presa prima ancora che Corpsman arrivasse.
Udii dalla porta un bussare rapido. — Chi è? — gridai.
— Capitano Broadbent.
— Avanti, Dak.
Entrò, si mise a sedere, e per alcuni momenti sembrò occupatissimo a pulirsi le unghie. Alla fine alzò il viso e disse:
— Cambierebbe idea se mettessi ai ferri quel manigoldo?
— Come? C’è un posto in cui mettere qualcuno ai ferri, sull’astronave?
— No. Ma si potrebbe anche prepararlo.
L’osservai attentamente, cercando di capire cosa gli stesse esattamente frullando per il cervello. — E lei metterebbe davvero Bill ai ferri, solo perché lo chiedo io?
Mi fissò, mi strizzò un occhio, e fece un sorriso. — No. Un uomo che si comportasse così non sarebbe un vero comandante. Sono ordini che non sarei disposto ad accettare neppure da lui. - Indicò con il capo la stanza di Bonforte.
— In questi casi, un uomo deve decidere da solo.
— Sono d’accordo anch’io.
— Ehm… mi hanno detto che lei ha preso or ora una decisione di questo tipo.
— Vero.
— Lo supponevo. Sa, vecchio marpione, da qualche tempo ho incominciato a nutrire un mucchio di rispetto per lei. Da principio pensavo che lei fosse solo una maschera vuota, una faccia, uno smidollato con dentro niente. Ma mi sbagliavo.
— Grazie.
— Per questo non voglio discutere la sua decisione. Mi dica però una cosa. Vale la pena, per me e per lei, d’esaminare ancora una volta tutti gli aspetti della situazione? Lei ci ha già pensato come doveva?
— Mi spiace, Dak, ma sono deciso. Non sono affari di mia competenza.
— Be’, forse lei ha ragione. Mi scusi. Allora, penso che non ci resti altro che sperare che lui si ristabilisca in tempo. — Si alzò. — A proposito — aggiunse — Penny desidererebbe farle visita un momento, se lei non ha intenzione di ritirarsi proprio ora.
Risi senza un briciolo d’allegria. — Solo "a proposito", eh? Mi pare che non sia la sequenza giusta. Adesso non toccherebbe al professor Capek cercare di far leva sulla mia simpatia?
— Ha preferito saltare il turno. Ha troppo da fare con l’onorevole Bonforte. Però le ha mandato un messaggio verbale.
— Eh?
— Dice che lei può andarsene pure all’inferno. L’ha ricamato con qualche fronzolo, ma il succo era quello.
— Davvero? Allora gli dica che gli terrò uno dei posti migliori, di quelli accanto al fuoco.