Lo portarono su con l’ascensore, dopo averlo fatto accomodare su una poltrona a rotelle. Io non mi feci vedere, e lasciai che lo sistemassero sul divano prima di fare il mio ingresso; un uomo ha il diritto di non mostrare la sua debolezza di fronte agli estranei. Inoltre volevo che il mio ingresso sulla scena si svolgesse secondo tutte le regole.
Al vederlo, la sorpresa fu tale che per poco non dimenticai la parte. Somigliava a mio padre!… Oh, era solo una vaga rassomiglianza "di famiglia"; io e lui ci somigliavamo molto di più di quanto entrambi non somigliassimo a mio padre, ma la somiglianza c’era, e anche l’età, perché Bonforte appariva decisamente vecchio. Non avrei supposto di trovarlo invecchiato così. Era esile, emaciato, e aveva i capelli completamente incanutiti.
Al primo sguardo presi mentalmente nota che, durante le ormai prossime vacanze nello spazio, io avrei dovuto aiutarlo a prepararsi per il passaggio delle consegne. Senza dubbio Capek avrebbe trovato il modo di mettergli un po’ di carne sulle ossa, ma anche nel caso contrario si può sempre riuscire a far apparire un po’ più robusto un uomo, senza doverlo imbottire in modo appariscente. Io stesso, inoltre, avrei potuto tingergli i capelli. Spostando l’annuncio del collasso che l’aveva colpito, poi, si potevano spiegare anche certe piccole differenze altrimenti ingiustificabili. In fin dei conti, egli aveva davvero subito tutto quel cambiamento in poche settimane; occorreva solo evitare che la cosa facesse ritornare alla mente le voci di una sostituzione.
Ma questi particolari d’ordine pratico si affacciavano da soli in un angolino della mia mente perché, dominante sopra ogni altro sentimento, mi sentivo sopraffatto dall’emozione. Per quanto fosse malato, da quell’uomo emanava una grande forza, sia spirituale che fisica. Sentii quella scossa di sacralità e di calore che si prova quando si ammira per la prima volta la grande statua di Abramo Lincoln. E mi ricordai anche di un’altra statua, vedendolo disteso sul divano con le gambe e la parte immobilizzata coperte da uno scialle: il Leone Ferito di Lucerna. Ne aveva la stessa forza, la stessa dignità imponente, anche se inerme: "La Guardia muore ma non si arrende".
Alzò lo sguardo su di me, vedendomi entrare; mi sorrise con quel sorriso calmo, benevolo, pieno di comprensione che avevo imparato a imitare, e mi fece un gesto con la mano sana perché mi avvicinassi. Gli rivolsi un sorriso, identico al suo, e mi avvicinai a lui. Mi strinse la mano con una stretta sorprendentemente forte e mi disse con cordialità: — Sono felice d’incontrarla, finalmente. — Parlava con una certa difficoltà, e ora, vedendolo da vicino, mi accorgevo come la parte del volto più distante da me rimanesse immobile.
— Mi sento onorato e felice di fare la sua conoscenza, signore. — Dovevo dominarmi con sforzo per non imitare il suo modo di parlare inceppato dovuto alla paralisi.
Mi osservò a lungo, da capo a piedi, poi commentò, sorridendo: — A quanto vedo, lei la mia conoscenza l’ha già fatta…
Piegai il capo e mi diedi un’occhiata anch’io. — Ho cercato, signore.
— "Cercato!" Lei c’è riuscito perfettamente. Fa davvero uno strano effetto, vedersi davanti a se stessi…
Compresi con doloroso stupore che non si rendeva conto di come fosse cambiato; l’aspetto con cui mi ero presentato davanti a lui gli sembrava sempre essere il "suo", e tutti i mutamenti sopravvenuti nel suo fisico non venivano presi in considerazione: li giudicava temporanei, portati dalla malattia. Intanto continuava a parlare:
— Le spiacerebbe fare qualche passo per la stanza? Sarei curioso di vedermi, cioè vedere lei… sì, vedere noi; per una volta voglio guardare dal punto di vista del pubblico.
Allora io raddrizzai le spalle e feci qualche passo per la stanza; parlai a Penny (la poverina continuava a osservare prima l’uno e poi l’altro, e aveva l’aria smarrita), presi un giornale, mi passai un dito nel colletto e mi strofinai il mento, mi tolsi la verga marziana da sotto il braccio e ci giocherellai un poco.
Bonforte mi guardava deliziato. Mi sentii in dovere di concedergli un piccolo extra. Ritto in mezzo al tappeto, pronunciai le frasi finali di uno dei suoi migliori discorsi, senza preoccuparmi di ripeterlo parola per parola, ma interpretandolo, lasciando che spumeggiasse, che scorresse fluente e che scrosciasse, come avrebbe fatto lui. Terminai con le sue stesse parole: — Non si può liberare uno schiavo se non è lui stesso a liberarsi, né si può rendere schiavo un uomo libero; il massimo che si può fare è ucciderlo.
Al termine della perorazione vi fu un silenzio reverente e commosso, rotto subito da uno scroscio d’applausi. Bonforte stesso batteva sul divano con l’unica mano capace di muoversi e gridava: — Bravo!
Fu l’unico applauso che ricevetti per tutta la durata della mia interpretazione. Ma fu sufficiente.
Poi Bonforte volle che andassi a sedermi accanto a lui. Vidi che dava un’occhiata alla verga e gliela consegnai.
— C’è la sicura, signore.
— Sì, so come si usa. — La osservò con attenzione, poi me la ridiede. Avevo pensato che se la sarebbe tenuta; poiché non l’aveva fatto, decisi di consegnarla a Dak perché gliela desse poi. Mi chiese affabilmente di me e disse di non ricordare d’avermi mai visto sulla scena, ma di avere visto un’interpretazione di mio padre del Cirano. Faceva uno sforzo enorme per controllare i movimenti della bocca, che tendeva a storcersi, e parlava chiaramente ma con penosa lentezza.
Poi mi domandò che intenzioni avessi per l’avvenire. Gli confessai di non aver fatto ancora progetti, e lui assentì. — Vedremo — mi disse. — C’è posto anche per lei. Abbiamo ancora molto lavoro da fare. — Non fece parola di compensi e ciò mi colmò d’orgoglio.
I risultati elettorali stavano cominciando ad arrivare; Bonforte rivolse l’attenzione allo stereovisore. Naturalmente, i risultati stavano già affluendo da quarantotto ore perché i mondi esterni e i collegi elettorali non legati a una circoscrizione definita votano prima della Terra, e perché anche sulla Terra un "giorno" d’elezioni dura più di trenta ore, a causa dei diversi fusi orari. Ma ora cominciavano ad arrivare i risultati delle circoscrizioni importanti dei grandi continenti. Avevamo iniziato già il giorno prima ad azzardare pronostici basati sui risultati delle circoscrizioni esterne, e Rog s’era sentito in dovere di dirmi che non avevano molto significato; il Partito espansionista stravinceva sempre sui mondi esterni. Ad avere realmente importanza erano i miliardi di persone che si trovavano sulla Terra: quelle che non se n’erano mai allontanate e che non avevano alcuna intenzione di farlo.
Ma tutti i voti esterni ci erano utili. Il Partito agrario di Ganimede aveva conquistato cinque seggi su sei; faceva parte della Coalizione, e il Partito espansionista non aveva messo in lista neppure candidati simbolici. La situazione su Venere era invece molto più pericolosa: i venusiani erano divisi in decine di partiti che si distinguevano tra loro per qualche sottilissima sfumatura di teologia politica, incomprensibile agli esseri umani. Tuttavia pensavamo che la maggior parte dei voti indigeni sarebbe stata per noi, sia direttamente, sia per mezzo di coalizioni patteggiate al vertice, da decidersi dopo le elezioni; inoltre avremmo dovuto prendere anche quasi tutti i voti umani del pianeta. Le restrizioni imperiali imponevano agli indigeni di eleggere esseri umani come loro rappresentanti a New Batavia; Bonforte si era impegnato a far togliere queste restrizioni: la cosa ci aveva fatto guadagnare voti su Venere, ma non si poteva ancora dire quanti voti ci avrebbe fatto perdere sulla Terra.
Poiché i nidi inviavano all’Assemblea solo degli osservatori, l’unico voto marziano che contasse era quello umano. Le simpatie popolari erano per noi; i nostri avversari avevano in mano l’amministrazione politica. Ma se non ci fossero stati brogli elettorali, ci aspettavamo un’affermazione clamorosa.