Thar ne sapeva ben poco, tranne i nomi di certe camere e l’elenco delle direzioni da prendere e delle svolte da seguire e da omettere per arrivarvi. Lo diceva ad Arha, ma non le disegnava mai nella polvere e neppure con un gesto della mano nell’aria: e lei stessa non le aveva mai percorse, non era mai penetrata nel labirinto. Ma quando Arha le chiedeva «Qual è la via che conduce dalla porta di ferro aperta alla Camera Dipinta?», oppure «Come procede il percorso dalla Camera delle Ossa fino alla galleria presso il fiume?», allora Thar rimaneva per un po’ in silenzio e poi recitava le strane istruzioni che aveva appreso molto tempo prima dall’Arha precedente: tanti varchi da superare, tante svolte a sinistra, e così via e così via. E Arha imparava tutto a memoria, come aveva fatto Thar, spesso dopo aver ascoltato una volta soltanto. Quando giaceva sveglia nel suo letto, la notte, le ripeteva a se stessa, cercando di immaginare i luoghi, le camere, le svolte.

Thar mostrò ad Arha i numerosi spioncini che si aprivano sul labirinto, in tutti gli edifici e i templi del Luogo, e perfino sotto le rocce all’aperto. La ragnatela delle gallerie dalle pareti di pietra si stendeva sotto l’intero Luogo, e addirittura oltre le sue mura: c’erano miglia e miglia di corridoi, laggiù nelle tenebre. Tranne lei, le due somme sacerdotesse e i loro servitori personali, gli eunuchi Manan, Uahto e Duby, nessuno conosceva l’esistenza del labirinto che si stendeva sotto ogni loro passo. Tra gli altri, correvano vaghe dicerie: tutti sapevano che c’erano grotte o camere sotto le Pietre. Ma nessuno si mostrava troppo curioso, per quanto riguardava i Senza Nome e i luoghi a loro sacri. Forse pensavano che era meglio saperne molto poco. Arha, naturalmente, aveva sempre provato un’intensa curiosità, e poiché sapeva che c’erano spioncini affacciati sul labirinto li aveva cercati; eppure erano nascosti così bene, nei pavimenti o nel terreno deserto, che non ne aveva trovato nemmeno uno, neppure quello nella Casa Piccola, la sua casa, finché Thar gliel’aveva mostrato.

Una notte, all’inizio della primavera, prese una lanterna a candela e la portò giù, senza accenderla, attraverso la cripta, fino alla seconda galleria a sinistra del corridoio proveniente dalla porta nella roccia rossa.

Al buio, si addentrò per una trentina di passi nella galleria e poi varcò una porta, tastando l’intelaiatura di ferro incastonata nella roccia: quello era il limite attuale delle sue esplorazioni. Oltre la Porta di Ferro procedette per un lungo tratto; e quando finalmente la galleria incominciò a curvare verso destra, lei accese la candela e si guardò intorno. Perché lì la luce era consentita. Non era più nella cripta. Era in un luogo meno sacro, anche se forse più spaventoso. Era nel labirinto.

Le scabre e nude superfici delle pareti e della volta e del pavimento di roccia la circondavano nella piccola sfera della luce della candela. L’aria era morta. Davanti a lei e dietro di lei, la galleria si stendeva nell’oscurità.

Tutte le gallerie erano uguali, e s’incrociavano e tornavano a incrociarsi. Arha teneva scrupolosamente il conto delle svolte e delle aperture, recitando tra sé le istruzioni di Thar sebbene le conoscesse perfettamente. Sarebbe stato terribile, perdersi nel labirinto. Nella cripta e nei brevi corridoi vicini, Kossil e Thar avrebbero potuto ritrovarla, o Manan sarebbe venuto a cercarla, perché lei l’aveva condotto là parecchie volte. Ma lì nessuno di loro era mai penetrato: soltanto lei. Sarebbe stato inutile scendere nella cripta e chiamarla a gran voce, se lei era smarrita in un’aggrovigliata spirale di gallerie a mezzo miglio di distanza. Immaginava che avrebbe potuto udire l’eco delle voci che la chiamavano nei corridoi, e che avrebbe cercato di raggiungerle: ma, perduta, si sarebbe persa ancora di più. Lo immaginò così vivamente che si fermò, credendo di sentirsi chiamare da una voce lontana. Ma non c’era nulla. E lei non si sarebbe smarrita. Era molto prudente; e quello era il suo posto, il suo dominio. Le potenze della tenebra, i Senza Nome, avrebbero guidato i suoi passi, così come avrebbero fatto smarrire qualunque altro mortale che avesse osato penetrare nel Labirinto delle Tombe.

Quella prima volta non si spinse lontano, eppure abbastanza lontano perché la strana e amara e tuttavia piacevole certezza della sua solitudine assoluta e della sua indipendenza si rafforzasse in lei e la riconducesse indietro, ogni volta più lontano. Arrivò alla Camera Dipinta e alle Sei Vie, e seguì la lunga Galleria Estrema, e penetrò nello strano meandro che portava alla Camera delle Ossa.

—  Quando venne creato il labirinto? — chiese a Thar, e la scarna e austera sacerdotessa rispose: — Padrona, non lo so. Nessuno lo sa.

—  Perché venne creato?

—  Per nascondere i tesori delle tombe, e per punire coloro che tentassero di rubare quei tesori.

—  Tutti i tesori che ho visto sono nelle camere dietro il trono e nelle cantine sottostanti. Cosa c’è nel labirinto?

—  Un tesoro ancora più grande e antico. Vorresti vederlo?

—  Nessuno, tranne te, può entrare nel Tesoro delle Tombe. Puoi portare i tuoi servitori nel labirinto, ma non nel Tesoro. Se vi entrasse perfino Manan, desterebbe l’ira della tenebra; e lui non uscirebbe vivo dal labirinto. Là devi andare da sola, sempre. Io so dove si trova il Grande Tesoro. Tu mi hai insegnato la via, quindici anni orsono, prima di morire, perché la ricordassi e te la dicessi quando saresti ritornata. Posso dirti la via da seguire nel labirinto, oltre la Camera Dipinta; e la chiave che apre il Tesoro è quella argentea appesa al tuo anello, con la figura di un drago sull’asta. Ma devi andarci da sola.

—  Dimmi la via.

Thar gliela disse, e lei ricordò, come ricordava tutto ciò che le veniva detto. Ma non andò a vedere il Grande Tesoro delle Tombe. La trattenne la sensazione che la sua volontà o la sua conoscenza non fossero ancora complete. O forse desiderava tenere in serbo qualcosa, qualcosa cui pensare e che conferisse un fascino a quelle gallerie interminabili che si snodavano nella tenebra e finivano sempre davanti a pareti cieche o in nude celle polverose. Avrebbe atteso ancora un poco, prima di vedere i suoi tesori.

Dopotutto, non li aveva già visti nel passato?

Eppure provava ancora un’impressione strana, quando Thar e Kossil le parlavano di cose che lei aveva visto o detto prima di morire. Sapeva che in verità era morta, ed era rinata in un nuovo corpo nell’ora della morte del vecchio corpo; non soltanto una volta, quindici anni prima, ma cinquant’anni prima, e prima ancora, e ancora, indietro negli anni e nei secoli, per generazioni e generazioni, fino al principio degli anni, quando era stato scavato il labirinto ed erano state erette le Pietre, e la Prima Sacerdotessa dei Senza Nome era vissuta in quel Luogo e aveva danzato davanti al trono vuoto. Erano tutte una cosa sola, quelle vite e la sua. Lei era la Prima Sacerdotessa. Tutti gli esseri umani rinascevano, ma lei soltanto rinasceva sempre come se stessa. Cento volte aveva imparato le vie e le svolte del labirinto ed era giunta finalmente nella camera nascosta.

Talvolta credeva di ricordare. I luoghi tenebrosi sotto la collina le erano familiari, come se fossero non soltanto il suo dominio ma la sua casa. Quando aspirava i fumi drogati per danzate al novilunio, la sua mente diventava leggera leggera e il suo corpo non le apparteneva più; e allora danzava nei secoli, scalza nelle vesti nere, e sapeva che la danza non si era mai interrotta.

Eppure era sempre strano, quando Thar diceva: — Me l’hai insegnato tu prima di morire…

Una volta lei chiese: — Chi erano gli uomini che venivano a derubare le tombe? Davvero c’è stato qualcuno che l’ha fatto? — L’idea dei ladri le era parsa eccitante ma improbabile. Come potevano giungere segretamente nel Luogo? I pellegrini erano pochissimi, ancor meno numerosi dei prigionieri. Di tanto in tanto, altre novizie e altri schiavi venivano inviati dai templi minori delle Quattro Terre, oppure arrivava un piccolo gruppo per portare offerte d’oro o d’incensi rari a uno dei templi. Ed era tutto. Nessuno vi giungeva per caso, o per comprare e vendere, o per curiosare, o per rubare; nessuno veniva mai lì, se non aveva ricevuto l’ordine. Arha non sapeva neppure quanto distasse la città più vicina, se venti miglia o più; e la città più vicina era piccola. Il Luogo era guardato e difeso dal vuoto, dalla solitudine. Chiunque attraversasse il deserto che lo circondava, pensava Arha, aveva le stesse probabilità di passare inosservato di una pecora nera in un campo di neve.


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