Nel primo pomeriggio tornò da sola nel labirinto. Il pane non c’era più, la borraccia era vuota, e lo sconosciuto si era messo a sedere, col dorso contro la parete. Il suo volto era ancora sfigurato dal terriccio e dalle croste, ma aveva un’espressione vigile.

Arha rimase lontana, dove lui — così incatenato — non avrebbe potuto raggiungerla, e lo guardò. Poi distolse gli occhi. Ma non c’era nulla di particolare da guardare. Qualcosa le impediva di parlare. Il cuore le batteva, come se avesse avuto paura. Ma non aveva motivo di temerlo: l’uomo era in suo potere.

—  È piacevole avere un po’ di luce — disse lui, con quella voce sommessa ma profonda che la turbava.

—  Come ti chiami? — chiese lei, perentoria. La sua voce, pensò, suonava stranamente alta e acuta.

—  Ecco, quasi sempre vengo chiamato Sparviero.

—  Sparviero? È il tuo nome?

—  No.

—  Qual è il tuo nome, allora?

—  Non posso dirtelo. Tu sei l’Unica Sacerdotessa delle Tombe?

—  Sì.

—  Come ti chiami?

—  Sono chiamata Arha.

—  Colei che è stata divorata… è questo il significato? — Gli occhi scuri la scrutavano attentamente. L’uomo sorrideva appena. — Qual è il tuo nome?

—  Io non ho nome. Non farmi domande. Da dove vieni?

—  Dalle Terre Interne, a occidente.

—  Da Havnor?

Era l’unico nome di una città o di un’isola delle Terre Interne che lei conoscesse.

—  Sì, da Havnor.

—  Perché sei venuto qui?

—  Le Tombe di Atuan sono famose, tra la mia gente.

—  Ma tu sei un infedele, un miscredente.

Il giovane scosse il capo. — Oh, no, sacerdotessa. Io credo nella potenza delle tenebre! Ho incontrato i Senza Nome, in altri luoghi.

—  Quali altri luoghi?

—  Nell’arcipelago… nelle Terre Interne, vi sono luoghi che appartengono alle antiche potenze della terra, come questo. Ma nessuno è grande come questo. In nessun altro luogo hanno un tempio e una sacerdotessa, e il culto che ricevono qui.

—  E tu sei venuto per adorarle — disse lei, sarcastica.

—  Sono venuto per derubarle — disse lui.

Arha fissò quel volto grave. — Presuntuoso!

—  Sapevo che non sarebbe stato facile.

—  Facile! È impossibile. Se non fossi un miscredente lo sapresti. I Senza Nome proteggono ciò che appartiene a loro.

—  Ciò che io cerco non è loro.

—  È tuo, senza dubbio?

—  È mio.

—  Che cosa sei, dunque: un dio? Un re? — Arha lo squadrò: incatenato, sporco, esausto. — Non sei altro che un ladro!

Lui non disse nulla, ma cercò il suo sguardo.

—  Non devi guardarmi! — esclamò Arha, con voce stridula.

—  Mia signora — disse il giovane, — non intendo offenderti. Sono uno straniero, e un intruso. Non conosco le vostre consuetudini, né le cortesie dovute alla sacerdotessa delle tombe. Sono in tuo potere, e se ti ho offesa ti chiedo perdono.

Lei rimase in silenzio, ma dopo un attimo sentì che il sangue le saliva scioccamente alle guance e le faceva ardere. Ma il giovane non la guardava, e non la vide arrossire. Aveva ubbidito, distogliendo lo sguardo degli occhi scuri.

Per lunghi istanti, nessuno dei due parlò. Le figure affrescate intorno a loro li osservavano con occhi tristi e ciechi.

Arha aveva portato un’anfora di pietra, piena d’acqua. Lo sguardo del giovane continuava a posarvisi, e dopo un po’ lei disse: — Bevi, se vuoi.

L’uomo si trascinò subito verso la brocca: la sollevò come una coppa e bevve una lunga, lunga sorsata. Poi vi intrise un lembo della manica e si ripulì mani e faccia, come meglio poté, dalla polvere e dai grumi di sangue e dalle ragnatele. Impiegò un certo tempo, e la ragazza rimase a guardare. Quando ebbe terminato, il suo aspetto apparve un po’ migliore. Ma questa pulizia sommaria aveva messo in mostra le cicatrici su un lato del volto: vecchie cicatrici rimarginate da tempo, biancastre sulla pelle scura, quattro linee parallele che andavano dall’occhio alla mandibola, come lasciate dagli artigli di una zampa enorme.

—  Che cos’è? — chiese lei. — Quella cicatrice.

Il giovane non rispose subito.

—  Un drago? — chiese Arha, cercando di darsi un tono ironico. Non era forse venuta lì per beffarsi della propria vittima, per tormentarla e ridere della sua impotenza?

—  No, non un drago.

—  Dunque, almeno non sei un signore dei draghi.

—  No — replicò lui, con una certa riluttanza. — Io sono un signore dei draghi. Ma le cicatrici sono antecedenti. Ti ho detto che ho incontrato le Potenze Tenebrose in altri luoghi della terra. Quello che porto sul volto è il marchio di uno della stirpe dei Senza Nome. Ma non è più senza nome, perché alla fine ho scoperto il suo.

—  Cosa vuoi dire? Che nome?

—  Questo non posso dirtelo — rispose lui, e sorrise, sebbene la sua espressione fosse grave.

—  È un’assurdità, una sciocchezza, un sacrilegio. Loro sono i Senza Nome! Tu non sai ciò che dici…

—  Lo so meglio di te, sacerdotessa — ribatté il giovane, con voce più profonda. — Guarda ancora! — Girò la testa, perché lei vedesse i quattro terribili segni che gli sfregiavano la guancia.

—  Non ti credo — disse Arha, con voce tremante.

—  Sacerdotessa — fece lui, gentilmente, — tu non sei molto vecchia: non puoi essere da molto tempo al servizio dei Tenebrosi.

—  E invece sì. Da moltissimo tempo! Io sono la Prima Sacerdotessa, la Rinata. Ho servito i miei padroni per mille e mille anni, prima d’ora. Sono la loro ancella, e la loro voce e le loro mani. E sono anche la loro vendetta contro quelli che profanano le tombe e vedono ciò che non devono vedere! Smetti di mentire e di vantarti: non capisci che se dico una sola parola, il mio guardiano verrà qui e ti spiccherà la testa dalle spalle? Oppure, se me ne vado e chiudo questa porta, nessuno verrà mai, e tu morirai qui nell’oscurità, e Coloro che io servo divoreranno la tua carne e la tua anima e lasceranno le tue ossa qui nella polvere.

In silenzio, l’uomo annuì.

Arha balbettò e non trovò null’altro da dire: uscì in fretta dalla stanza e sbarrò rumorosamente la porta. Lui doveva credere che non sarebbe più tornata! Doveva sudare, lì nell’oscurità, e imprecare e rabbrividire e cercare di operare i suoi immondi e inutili sortilegi!

Ma con l’occhio della mente lo vide sdraiarsi per dormire, come l’aveva visto fare accanto alla porta di ferro, sereno come un agnello in un prato soleggiato.

Sputò contro la porta chiusa, tracciò il segno per scongiurare la profanazione, e tornò quasi di corsa verso la cripta.

Quando ne costeggiò la parete, dirigendosi alla botola del palazzo, le sue dita sfiorarono le delicate linee e venature della roccia, simili a trina cristallizzata. L’invase il desiderio di accendere la lanterna, di vedere ancora una volta, solo per un momento, la pietra scolpita dal tempo, l’incantevole scintillio delle pareti. Chiuse strettamente le palpebre e si affrettò a procedere.


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