Manan arrivò scalpicciando lungo la navata, tra le doppie file di colonne, quando la luce aveva cessato da tempo di trafiggere la semioscurità e il freddo era divenuto intenso. La sua faccia gonfia e giallognola era molto triste. Si fermò a una certa distanza da lei, tenendo penzolanti le grosse mani; dietro, l’orlo del mantello color ruggine si era staccato e gli ricadeva sui calcagni.

—  Padroncina.

—  Cosa c’è, Manan? — Lei lo guardò con affetto opaco.

—  Piccola, lasciami fare quello che hai detto… quello che hai detto che è stato fatto. Lui deve morire, piccola. Ti ha stregata. Lei si vendicherà. È vecchia e crudele, e tu sei troppo giovane. Non sei abbastanza forte.

—  Lei non può farmi male.

—  Se ti uccidesse, anche davanti agli occhi di tutti, all’aperto, nessuno in tutto l’impero oserebbe punirla. Lei è la somma sacerdotessa del re-dio, e il re-dio governa. Ma lei non ti ucciderà apertamente. Lo farà di nascosto, col veleno, nella notte.

—  Allora rinascerò.

Manan si torse le grosse mani. — Forse non ti ucciderà — mormorò.

—  Cosa intendi dire?

—  Potrebbe rinchiuderti in una stanza nel… laggiù… Come tu hai fatto con lui. E tu rimarresti viva per anni e anni, forse. Per anni… E non nascerebbe una nuova sacerdotessa, perché tu non saresti morta. Eppure non ci sarebbe una sacerdotessa delle tombe, e non si danzerebbero le danze del novilunio, e i sacrifici non verrebbero compiuti, e il sangue non verrebbe versato, e il culto dei Tenebrosi potrebbe essere dimenticato per sempre. Lei e il suo signore amerebbero che fosse così.

—  Loro mi libererebbero, Manan.

—  No, se saranno irati con te, padroncina — replicò a bassa voce Manan.

—  Irati?

—  A causa di lui… Il sacrilegio non espiato. Oh, piccola, piccola! Loro non perdonano!

Lei stava seduta nella polvere del gradino più basso, con la testa china. Guardava la cosa minuscola che teneva nel palmo, il cranio di un topolino. I gufi appollaiati sulle travi, al di sopra del trono, cominciarono ad agitarsi un poco: si stava facendo scuro, e la notte si avvicinava.

—  Non scendere nel labirinto, questa notte — disse Manan, a voce molto bassa. — Va’ nella tua casa e dormi. Domani mattina va’ da Kossil e dille che revochi la maledizione lanciata su di lei. E sarà tutto. Non avrai più motivo di preoccuparti. Io le mostrerò la prova.

—  La prova?

—  Che l’incantatore è morto.

Lei restò muta. Lentamente chiuse le dita, e il fragile cranio si sfracellò e si sgretolò. Quando lei riaprì la mano, non c’erano altro che schegge d’osso e polvere.

—  No — disse. Scosse la mano per farne cadere la polvere.

—  Lui deve morire. Ha gettato un incantesimo su di te. Sei perduta, Arha!

—  Non ha gettato nessun incantesimo, su di me. Sei vecchio e codardo, Manan: ti lasci spaventare da una vecchia. Come credi di poter arrivare fino a lui e di ucciderlo e di ottenere la tua «prova»? Conosci la strada per giungere fino al Grande Tesoro, la strada che hai percorso nella tenebra stanotte? Sai contare le svolte e raggiungere la scala, e poi l’abisso, e poi la porta? Puoi aprire quella porta? Oh, povero vecchio Manan, la tua mente si è annebbiata. Lei ti ha fatto paura. Adesso va’ alla Casa Piccola e dormi, e dimentica tutte queste cose. E smettila di assillarmi di continuo parlando di morte… Io verrò più tardi. Va’, va’, vecchio sciocco, vecchio pancione. — Si era alzata: sospinse dolcemente l’ampio petto di Manan, perché se ne andasse. — Buonanotte, buonanotte!

Manan si voltò, appesantito dalla riluttanza e dai cupi presentimenti ma pur sempre docile; e si avviò per la navata, sotto il colonnato e il tetto in rovina. Lei lo seguì con lo sguardo.

Quando Manan fu uscito da qualche tempo, lei si voltò e girò intorno al podio del trono, e sparì nell’oscurità retrostante.

L’ANELLO DI ERRETH-AKBE

Nel Grande Tesoro delle Tombe di Atuan, il tempo non passava. Non c’era luce, né vita, neppure il movimento di un ragno nella polvere o di un verme nella fredda terra. Pietra, e tenebra, e il tempo che non passava.

Il ladro venuto dalle Terre Interne giaceva sul coperchio di pietra di uno dei grandi scrigni, riverso come una figura scolpita su una tomba. La polvere sollevata dai suoi movimenti era ricaduta sui suoi panni. Non si muoveva.

La serratura sferragliò. La porta si aprì. La luce infranse la profonda tenebra e un soffio di corrente più pura agitò l’aria morta. L’uomo rimase a giacere, inerte.

Arha chiuse la porta e girò la chiave dall’interno; poi posò la lanterna su un cofano e si avvicinò lentamente alla figura immota. Si muoveva con timore e aveva gli occhi spalancati, con le pupille ancora dilatate per il lungo percorso attraverso la notte.

—  Sparviero!

Gli toccò la spalla e pronunciò ancora il suo nome, e un’altra volta ancora.

Finalmente lui si mosse, con un gemito. Si sollevò a sedere, col volto tirato e gli occhi spenti. La guardò senza riconoscerla.

—  Sono io, Arha… Tenar. Ti ho portato l’acqua. Ecco, bevi.

Lui afferrò la borraccia brancolando, come se avesse le mani intorpidite, e bevve, ma non molto.

—  Quanto tempo è passato? — domandò. Parlava con difficoltà.

—  Sono trascorsi due giorni da quando sei venuto in questa camera. È la terza notte. Non ho potuto venire prima. Ho dovuto rubare il cibo. Eccolo… — Arha estrasse una delle piatte pagnotte grige dal sacco che aveva portato, ma lui scosse la testa.

—  Non ho fame. Questo… questo è un luogo mortale. — Si strinse la testa fra le mani e restò immobile.

—  Hai freddo? Ho portato il mantello dalla Camera Dipinta.

L’uomo non rispose.

Lei depose il mantello e restò a guardarlo. Tremava un poco, e i suoi occhi erano ancora neri e spalancati.

All’improvviso si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento, piegandosi su se stessa, e incominciò a piangere, con singhiozzi profondi che le squassavano tutto il corpo ma non portavano lacrime.

Il giovane scese dal cofano, con movimenti rigidi, e si chinò su di lei. — Tenar…

—  Io non sono Tenar. Io sono Arha. Gli dèi sono morti, gli dèi sono morti.

Lui le posò le mani sulla testa, spingendo all’indietro il cappuccio. Cominciò a parlare. La sua voce era sommessa, e le parole appartenevano a una lingua che lei non aveva mai udito. Quel suono le scendeva nel cuore come una pioggia. Si calmò, per ascoltare.

Quando lei tacque, il giovane la sollevò come una bambina e la depose sul grande cofano di pietra su cui era stato a giacere. Mise una mano sulla mano di lei.

—  Perché piangevi, Tenar?

—  Te lo dirò. Ciò che ti dirò non ha importanza. Tu non puoi far nulla. Non puoi aiutarmi. Anche tu stai morendo, non è vero? Quindi non ha importanza. Nulla ha più importanza. Kossil, la sacerdotessa del re-dio, è sempre stata crudele, ha sempre cercato di costringermi a ucciderti. Come ho ucciso gli altri. E io non volevo. Che diritto ne ha, lei? E ha sfidato i Senza Nome e si è fatta beffe di loro, e io le ho scagliato una maledizione. E da allora ho paura di lei, perché è vero ciò che ha detto Manan: lei non crede negli dèi. Lei vuole che vengano dimenticati; e vorrebbe uccidermi nel sonno. Perciò non ho dormito. Non sono ritornata nella Casa Piccola. Sono rimasta nel palazzo tutta l’altra notte, in una delle soffitte, dove sono custoditi gli abiti della danza. Prima che facesse chiaro, sono andata alla Casa Grande e ho rubato un po’ di cibo in cucina, e poi sono ritornata nel palazzo e ci sono rimasta tutto il giorno. Cercavo di scoprire cosa dovevo fare. E questa notte… questa notte ero così stanca che ho pensato di andare in un luogo sacro per dormire, perché forse lei avrebbe avuto paura di venirci. Allora sono scesa nella cripta. La grande caverna dove ti ho visto per la prima volta. E… e lei era là. Doveva essere entrata dalla porta delle rocce rosse. Era là, con una lanterna. Raspava nella fossa che aveva scavato Manan, per vedere se dentro c’era un cadavere. Come un ratto in un cimitero, un grande ratto grasso, e scavava. E la luce ardeva nel Luogo Sacro, il luogo tenebroso. E i Senza Nome non hanno fatto nulla. Non l’hanno uccisa e non le hanno tolto la ragione. Sono vecchi, come ha detto lei. Sono morti. Sono spariti tutti. Non sono più sacerdotessa.


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