—  Io — disse Arha, guardando lontano lontano, come se cercasse di vedere qualcosa che non poteva vedere, qualcosa che era scomparso.

Una volta chiese: — Cosa fece la… la madre, quando andarono a portar via la bambina?

Però Manan non lo sapeva: non aveva accompagnato le sacerdotesse in quell’ultimo viaggio.

E lei non riusciva a ricordare. A cosa serviva ricordare? Era perduto, tutto perduto. Era giunta dove doveva giungere. Di tutto il mondo, lei conosceva solamente un luogo: il Luogo delle Tombe di Atuan.

Durante il primo anno, aveva dormito nel grande dormitorio insieme alle altre novizie, bambine tra i quattro e i quattordici anni. Già allora Manan era stato prescelto tra i dieci custodi come suo guardiano particolare; e lei aveva il letto in una piccola alcova, parzialmente separata dallo stanzone lungo e basso nella Casa Grande, dove le ragazzine ridacchiavano e bisbigliavano prima di addormentarsi, e sbadigliavano e s’intrecciavano i capelli a vicenda nella grigia luce del mattino. Da quando le era stato tolto il nome e lei era divenuta Arha, dormiva nella Casa Piccola, nel letto e nella stanza che sarebbero stati il suo letto e la sua stanza per tutto il resto della sua vita. Quella casa era sua, la casa dell’Unica Sacerdotessa, e nessuno poteva entrarci senza il suo permesso. Quando era ancora piccola, le piaceva sentire la gente che bussava umile alla sua porta, e rispondere: «Puoi entrare»; e la irritava che le due somme sacerdotesse Kossil e Thar dessero per scontato il suo permesso ed entrassero nella sua casa senza bussare.

I giorni passavano, gli anni passavano, tutti uguali. Le fanciulle del Luogo delle Tombe trascorrevano il tempo fra studi e discipline. Non giocavano mai. Non c’era tempo, per giocare. Imparavano i canti sacri e le sacre danze, la storia delle terre di Kargad, e i misteri degli dèi cui erano votate: il re-dio che regnava ad Awabath, o gli dèi fratelli Atwah e Wuluah. Tra tutte, soltanto Arha apprendeva i riti dei Senza Nome, che le venivano insegnati esclusivamente da Thar, la somma sacerdotessa degli dèi gemelli. Questo l’allontanava dalle altre per un’ora o più ogni giorno; ma gran parte della sua giornata, come la giornata delle altre fanciulle, veniva trascorsa lavorando. Imparavano a filare e a tessere la lana dei loro armenti, e a piantare e a raccogliere e a preparare il cibo che mangiavano sempre: lenticchie, mais ridotto a una farina grossolana che serviva per una specie di pappa (o a una farina finissima che serviva per impastare il pane azimo), cipolle, cavoli, formaggio di capra, pomi, e miele.

La cosa più bella che poteva accadere loro era di ottenere il permesso di andare a pescare nel torbido fiume verde che scorreva attraverso il deserto, mezzo miglio a nordest del Luogo: portarsi dietro una mela o una pannocchia fredda di mais per pranzo e starsene tutto il giorno nell’arida luce del sole, tra le canne, a guardare la lenta acqua verde che scorreva e le ombre delle nuvole che cambiavano lentamente forma sulle montagne. Ma se una di loro lanciava un gridolino d’emozione quando la lenza si tendeva, e tirava fuori un pesce piatto e lucente che guizzava sulla riva e affogava nell’aria, allora Mebbeth sibilava come una vipera: — Sta’ zitta, sciocca! — Mebbeth, che prestava servizio nel tempio del re-dio, era una donna di carnagione scura, ancora giovane, ma dura e tagliente come l’ossidiana. La pesca era la sua passione. Bisognava mettersi dove voleva lei e non fare mai chiasso, altrimenti non le avrebbe più portate a pescare; e allora non sarebbero più andate al fiume se non per attingere l’acqua, d’estate, quando il livello del pozzo si abbassava. Era una noia atroce, camminare nel calore incandescente per mezzo miglio fino al fiume, riempire i secchi appesi all’asta a bilanciere, e poi risalire al più presto, verso il Luogo. Le prime cento braccia erano agevoli, ma poi i secchi diventavano più pesanti e l’asta bruciava le spalle come una barra di ferro rovente, e la luce opprimeva l’arida strada, e ogni passo era più faticoso e più lento. Finalmente si arrivava nella fresca ombra del cortile posteriore della Casa Grande passando attraverso l’orto, e si vuotavano i secchi nella vasta cisterna, con uno scroscio. E poi si doveva tornare indietro e ricominciare da capo quella fatica, e ancora e ancora e ancora.

Entro il recinto del Luogo — non aveva altro nome; e non gliene occorrevano altri, perché era il luogo più antico e più sacro tra tutti i luoghi delle Quattro Terre dell’impero di Kargad — vivevano circa duecento persone, e c’erano molti edifici: tre templi, la Casa Grande e la Casa Piccola, i quartieri dei custodi eunuchi, e all’esterno, vicino al muro, le caserme delle guardie e le capanne degli schiavi, i magazzini e i recinti delle pecore e delle capre e gli edifici della fattoria. Sembrava una piccola città, quando lo si guardava da lontano, dall’alto delle colline aride a occidente, dove non crescevano altro che salvia, ciuffi di erba dura, minuscole piantine ed erbette del deserto. Anche da lontano, dalle pianure a oriente, alzando gli occhi si poteva scorgere il tetto d’oro del tempio degli dèi gemelli luccicare e scintillare contro lo sfondo delle montagne, come un frammento di mica in una roccia.

Quel tempio era un cubo di pietra, intonacato di bianco, senza finestre, con un porticato basso e una porta. Più vistoso, e più recente di diversi secoli, era il tempio del re-dio, un poco più in basso, con un alto pronao e una fila di tozze colonne bianche dal capitello dipinto: ognuna era un massiccio tronco di cedro, portato per nave da Hur-at-Hur dove ci sono le foreste, e trascinato da venti schiavi attraverso le pianure sterili, fino al Luogo. Solo dopo che un viaggiatore proveniente dall’est aveva visto il tetto d’oro e le colonne sgargianti scorgeva più in alto, sul colle del Luogo, sopra tutti gli altri, fulvo e consunto come lo stesso deserto, il più antico tra i templi della sua razza: l’enorme e basso palazzo del trono, con le pareti rappezzate e la piatta cupola semidiroccata.

Dietro il palazzo, intorno alla cresta della collina, si stendeva un massiccio muro di pietra a secco, che in molti punti era parzialmente crollato. All’interno dell’anello di quel muro, parecchie pietre nere, alte sei o sette braccia, si ergevano spuntando come dita dalla terra. Appena l’occhio le scorgeva, continuava a ritornarvi. Erano cariche di significato, eppure era impossibile dire cosa significassero. Erano nove in tutto. Una era eretta, le altre più o meno inclinate, due erano cadute. Erano incrostate di licheni grigi e arancione, come se fossero chiazzate di vernice: tutte tranne una che era nuda e nera, con una specie di lucentezza opaca. Era liscia e levigata, e sulle altre, sotto l’incrostazione di licheni, si potevano scorgere, o sentire con le dita, incisioni vaghe: forme, segni. Quelle nove pietre erano le Tombe di Atuan. Erano lì, si diceva, fin dai tempi dei primi uomini, fin da quando era stato creato Earthsea. Erano state piantate nelle tenebre, quando la terraferma s’era innalzata dagli abissi dell’oceano. Erano molto più antiche dei re-dèi di Kargad, più antiche degli dèi gemelli, più antiche della luce. Erano le tombe di coloro che avevano regnato prima che esistesse il mondo degli uomini, coloro che non avevano nome; e colei che li serviva non aveva nome.

Lei non vi andava spesso, e nessun altro metteva mai piede nel recinto in cui sorgevano, sull’altura entro il muro di roccia dietro il palazzo del trono. Due volte l’anno, al plenilunio più prossimo agli equinozi di primavera e d’autunno, veniva compiuto un sacrificio davanti al trono, e lei usciva dalla bassa porta posteriore della sala reggendo un grande bacile di bronzo colmo di fumante sangue di capro; e doveva versarlo metà ai piedi della pietra nera eretta e metà su una delle pietre cadute che giacevano semisepolte nel terreno sassoso, macchiate dalle offerte cruente dei secoli.


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