Arha tacque, riflettendo. Il tempo non significava molto, lì nel deserto, sotto le Pietre immutabili, quando si conduceva un’esistenza che era sempre stata vissuta nello stesso modo fin dall’inizio del mondo. Lei non era abituata a pensare ai mutamenti, alle cose vecchie che morivano, alle nuove cose che si affermavano. La turbava, vedere la realtà in quella prospettiva. — I poteri del re-dio sono molto inferiori ai poteri di Coloro che io servo — disse, aggrottando la fronte.

—  Senza dubbio… Senza dubbio… Ma questo non puoi andare a dirlo a un dio, mio piccolo favo di miele. E neppure alla sua sacerdotessa.

E Arha, vedendo lo scintillio di quegli occhietti bruni, pensò a Kossil, somma sacerdotessa del re-dio, che lei aveva temuto fin dal giorno in cui era giunta nel Luogo: e comprese ciò che intendeva dire Manan.

—  Ma il re-dio, e la sua gente, stanno trascurando il culto delle Tombe. Non viene mai nessuno.

—  Be’, il re-dio invia qui i prigionieri per i sacrifici. Questo non lo trascura. E non dimentica neppure i doni dovuti ai Senza Nome.

—  I doni! Il suo tempio viene ridipinto ogni anno, ci sono più di cento libbre d’oro sull’altare, e nelle lampade brucia l’essenza di rosa! E guarda il palazzo del trono: falle nel tetto, crepe nella cupola, muri pieni di topi e di gufi e di pipistrelli… Eppure durerà più del re-dio e di tutti i suoi templi e di tutti i re che verranno dopo di lui. Esisteva prima di lui, e quando quelli saranno tutti scomparsi sarà ancora qui. È il centro delle cose.

—  È il centro delle cose.

—  Ci sono grandi ricchezze: Thar me ne parla, qualche volta. Abbastanza per riempire dieci volte il tempio del re-dio. Oro e trofei donati secoli fa, cento generazioni addietro, chissà quando. Sono tutti rinchiusi nelle fosse e nelle copte, sottoterra. Non vogliono ancora condurmi là, mi fanno aspettare e aspettare. Ma io so com’è. Ci sono camere sotto la sala, sotto l’intero Luogo, sotto il punto dove stiamo adesso. C’è un grande meandro di gallerie, un labirinto. È come una grande città buia, sotto la collina. Piena d’oro, e di spade di antichi eroi, e di vecchie corone, e di ossa e di anni e di silenzio.

Arha aveva parlato come in estasi, rapita. Manan la scrutava. La sua faccia pesante non esprimeva mai altro che una solida e prudente mestizia, e adesso era più triste che mai. — Bene, e tu sei la padrona di tutto questo — disse. — Il silenzio e la tenebra.

—  Sì. Ma loro non vogliono mostrarmi nulla: soltanto le camere al pianterreno, dietro il trono. Non mi hanno neppure mostrato gli ingressi dei sotterranei: si limitano a parlottarne, qualche volta. Mi negano il mio dominio! Perché continuano a farmi aspettare?

—  Tu sei giovane. E forse — disse Manan con quella sua roca voce di contralto — forse loro hanno paura, piccola. Non è il loro dominio, dopotutto: è il tuo. Loro sono in pericolo, quando vi penetrano. Non c’è mortale che non tema i Senza Nome.

Arha non disse nulla, ma i suoi occhi lampeggiarono. Ancora una volta, Manan le aveva mostrato un modo nuovo di vedere le cose. Thar e Kossil le erano sempre apparse così formidabili, così fredde, così forti, che non aveva mai immaginato che potessero avere paura. Eppure Manan aveva ragione. Temevano certi luoghi, i poteri di cui lei era parte, i poteri cui apparteneva. Avevano paura di addentrarsi nei luoghi tenebrosi, paura di essere divorate.

E ora, mentre scendevano insieme a Kossil la scalinata della Casa Piccola e il ripido sentiero gradinato verso il palazzo del trono, ricordò quel colloquio con Manan, ed esultò di nuovo. Dovunque la conducessero, qualunque cosa le mostrassero, lei non avrebbe avuto paura. Avrebbe saputo cosa fare.

Kossil, che era un poco più indietro di lei sul sentiero, parlò: — Uno dei doveri della mia padrona, come lei ben sa, è di sacrificare certi prigionieri, criminali di nobile nascita, che col sacrilegio o il tradimento hanno peccato contro il nostro signore il re-dio.

—  O contro i Senza Nome — disse Arha.

—  In verità è così. Ora, non è giusto che la divorata debba compiere tale dovere finché è ancora bambina. Ma la mia padrona non è più una bambina. Nella stanza delle catene ci sono i prigionieri, inviati un mese fa, per grazia del nostro signore il re-dio, dalla sua città di Awabath.

—  Non sapevo che fossero arrivati i prigionieri. Perché non sono stata informata?

—  I prigionieri vengono portati di notte, e in segreto, per la via prescritta anticamente dai rituali delle tombe. È la via segreta che la mia padrona seguirà se prenderà il sentiero che conduce lungo il muro.

Arha si allontanò dal sentiero per seguire il grande muro di pietra che cingeva le tombe, dietro il palazzo a cupola. I massi che lo formavano erano enormi: il più piccolo pesava più di un uomo, e i più grandi avevano le dimensioni di carri. Sebbene non fossero stati levigati, erano adattati e congiunti con estrema cura. In certi tratti, tuttavia, la sommità del muro era crollata, e i massi giacevano in mucchi informi. Solo un tempo lunghissimo poteva riuscire a tanto: i giorni roventi e le gelide notti dei secoli nel deserto, i millenari e impercettibili movimenti delle stesse colline.

—  È facilissimo scalare il muro delle tombe — disse Arha, mentre lo costeggiavano.

—  Non abbiamo abbastanza uomini per ricostruirlo.

—  Abbiamo pure abbastanza uomini per custodirlo.

—  Soltanto schiavi. Non possiamo fidarci, di loro.

—  Possiamo fidarci, se hanno paura. Si stabilisca che la punizione sia per loro la stessa comminata all’estraneo cui permettessero di porre piede sul sacro suolo all’interno del muro.

—  Qual è la punizione? — Kossil non lo chiese per conoscere la risposta. Era stata lei stessa a insegnarla ad Arha, molto tempo addietro.

—  Essere decapitato davanti al trono.

—  È la volontà della mia padrona che venga posta una guardia al muro delle tombe?

—  Sì — rispose la ragazza. Nelle lunghe maniche nere, le sue dita si contrassero euforicamente. Sapeva che Kossil non avrebbe desiderato assegnare neppure uno schiavo al compito di sorvegliare il muro, e per la verità era un dovere inutile: quando mai veniva lì qualche estraneo? Non era probabile che qualcuno capitasse a meno di un miglio dal Luogo, per caso o volutamente, senza essere avvistato; e di certo non sarebbe riuscito ad avvicinarsi alle tombe. Ma una guardia era un onore dovuto, e Kossil non poteva opporsi. Doveva ubbidire ad Arha.

—  Qui — disse la sua fredda voce.

Arha si fermò. Aveva percorso spesso quel sentiero, intorno al muro delle tombe, e lo conosceva come conosceva ogni spanna del Luogo, ogni sasso e ogni roveto e ogni cardo. Il grande muro di roccia si innalzava alla sua sinistra, tre volte più alto di lei; sulla destra la collina digradava in una valle arida e poco profonda, che presto risaliva verso la catena occidentale. Girò lo sguardo sul terreno, tutt’intorno, e non vide nulla che non avesse già visto.

—  Sotto le rocce rosse, padrona.

Poche braccia più in basso, sul pendio, uno spuntone di lava rossa formava una scala o un piccolo strapiombo nella collina. Quando Arha scese e si fermò davanti alle rocce, si accorse che sembravano una porta rudimentale, alta poco più di un braccio.

—  Cosa devo fare?

Aveva imparato ormai da molto tempo che nei luoghi sacri è inutile cercare di aprire una porta se non si sa come si fa ad aprirla.

—  La mia padrona ha tutte le chiavi dei luoghi tenebrosi.

Fin dai riti per la sua maggiore età, Arha portava alla cintura un anello di ferro cui erano appesi un pugnaletto e tredici chiavi, alcune lunghe e pesanti e altre minuscole come ami da pesca. Alzò l’anello e allargò le chiavi. — Quella — disse Kossil, indicandola, e poi posò il tozzo indice su una crepa tra due rosse superfici di pietra corrosa.

La chiave, una lunga asta di ferro con due guardie ornate, si inserì nella crepa. Arha la girò verso sinistra, usando entrambe le mani perché era rigida: tuttavia girò senza difficoltà.


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