—  Sì, mio signore — rispose Arren, con la gola arida.

—  Il principe tuo padre, senza dubbio, non vorrebbe che ti avventurassi tra i pericoli — osservò il Maestro delle Metamorfosi, in tono piuttosto brusco; e quindi, rivolgendosi all’arcimago, aggiunse: — Il ragazzo è troppo giovane, e non è stato istruito nella magia.

—  Io ho abbastanza anni e incantesimi da bastare per entrambi — disse Sparviero, in tono asciutto. — Arren, cosa ne penserebbe tuo padre?

—  Mi lascerebbe andare.

—  Come puoi saperlo? — chiese l’Evocatore.

Arren non sapeva dove gli veniva chiesto di andare, né quando, né perché. Era frastornato e intimidito da quegli uomini seri, onesti, terribili. Ma non aveva avuto il tempo di riflettere, e l’arcimago gli aveva chiesto «Vuoi venire con me?».

—  Quando mio padre mi ha mandato qui, mi ha detto: «Temo che per il mondo stia arrivando un tempo oscuro, un tempo di pericolo. Perciò invio te, anziché un altro messaggero, perché tu potrai giudicare se dobbiamo chiedere l’aiuto dell’isola dei Saggi, o se dobbiamo offrire loro l’aiuto di Enlad». Quindi, se c’è bisogno di me, io sono qui.

E allora vide l’arcimago sorridere. C’era una grande dolcezza in quel sorriso, sebbene fosse breve. — Capite? — chiese ai sette maghi. — L’età e la magia potrebbero forse aggiungere qualcosa?

Allora Arren sentì che lo stavano guardando con aria di approvazione, e tuttavia con un’espressione pensierosa o stupita. L’Evocatore parlò, distendendo in un cipiglio dubbioso le sopracciglia arcuate. — Non comprendo, mio signore. Che tu sia deciso ad andare, sì. Sei rimasto ingabbiato qui per cinque anni. Ma prima sei sempre stato solo; hai sempre viaggiato solo. Perché adesso decidi di sceglierti un compagno?

—  Prima non avevo mai avuto bisogno di aiuto — rispose Sparviero, con una sfumatura di minaccia o d’ironia nella voce. — E ho trovato un degno compagno. — C’era un alone di pericolosità, intorno a lui, e l’Evocatore non gli rivolse altre domande, sebbene rimanesse ancora accigliato.

Ma il Maestro Erborista, con gli occhi sereni come un bue saggio e paziente, si levò dal seggio, alto e monumentale. — Va’, mio signore — disse, — e porta con te il ragazzo. E tutta la nostra fiducia ti accompagna.

A uno a uno, gli altri diedero il loro assenso, quietamente, e poi si ritirarono, finché rimase soltanto l’Evocatore. — Sparviero — iniziò, — non intendo porre in discussione il tuo giudizio. Dico soltanto questo: se tu hai ragione, se c’è uno squilibrio, se c’è pericolo di un grande male, allora andare a Wathort, o nello Stretto Occidentale, o alla fine del mondo, non sarà sufficiente. Dovunque dovrai andare, puoi portare con te questo compagno? È giusto, nei suoi confronti?

Erano un po’ in disparte da Arren, e l’Evocatore aveva abbassato la voce, ma l’arcimago parlò apertamente: — È giusto.

—  Tu non mi stai dicendo tutto quello che sai — obiettò l’Evocatore.

—  Se sapessi, parlerei. Non so nulla. Intuisco molte cose.

—  Permettimi di venire con te.

—  Qualcuno deve difendere le porte.

—  A questo provvede il Portinaio…

—  Non soltanto le porte di Roke. Rimani qui, e osserva il levar del sole, per vedere se è fulgido, e veglia al muro di pietre, per vedere coloro che lo varcano e dove tengono rivolta la faccia. C’è una breccia, Thorion, c’è una breccia, una ferita: ed è questa, che io andrò a cercare. Se mi perderò, forse allora la scoprirete. Ma attendi. Ti chiedo di attendermi. — Adesso l’arcimago parlava nella Vecchia Lingua, il linguaggio della Creazione, che serve a gettare tutti i veri incantesimi e su cui si basano tutti i grandi atti della magia, ma raramente viene usata per conversare, se non fra i draghi. L’Evocatore non discusse più, non protestò, ma chinò la testa per congedarsi dall’arcimago e da Arren, e uscì.

Il fuoco crepitava nel camino. Non c’erano altri suoni. Oltre le finestre si addensava la nebbia, fosca e informe.

L’arcimago fissò le fiamme, come se avesse dimenticato la presenza di Arren. Il ragazzo stava a una certa distanza dal focolare; e non sapeva se doveva accomiatarsi o attendere di essere congedato: indeciso e un po’ mesto, si sentiva una figura minuscola in un vertiginoso spazio cupo e sconfinato.

—  Andremo anzitutto a Città Hort — disse Sparviero, voltando le spalle al fuoco. — Là giungono notizie da tutto lo Stretto Meridionale, e potremo trovare un indizio. La tua nave attende ancora nella baia. Parla al capitano: digli di portare l’annuncio a tuo padre. Credo che dovremo partire al più presto possibile. Domani, allo spuntar del giorno. Vieni alla scalinata della darsena coperta.

—  Mio signore, che cosa… — La voce de ragazzo s’inceppò per un momento. — Che cosa cerchi?

—  Non lo so, Arren.

—  Allora…

—  Allora come lo cercherò? Non so neppure questo. Forse sarà quella cosa sconosciuta, a cercare me. — L’arcimago rivolse ad Arren un lieve sorriso ironico, ma alla grigia luce delle finestre il suo volto sembrava modellato nel ferro.

—  Mio signore — disse Arren, e adesso il suo tono era fermo, — è vero che io discendo dalla dinastia di Morred, se si può prestar fede a una genealogia tanto antica. E se potrò servirti, lo riterrò il più grande onore della mia vita, e non c’è nulla che potrebbe essermi più gradito. Ma temo che tu mi attribuisca assai più importanza di quanta ne merito.

—  Forse.

—  Io non possiedo grandi doni o grandi facoltà. So tirare di scherma con la spada corta e con la spada nobile. So governare una barca. Conosco le danze di corte e i balli campagnoli. So sedare un litigio tra cortigiani. Conosco la lotta. Sono un arciere mediocre, e sono abile nel gioco della pallarete. So cantare e suonare l’arpa e il liuto. Ed è tutto. Non c’è altro. Come potrò esserti utile? Il Maestro Evocatore ha ragione…

—  Ah, te ne sei accorto, non è vero? È ingelosito. Vanta il privilegio di una devozione più antica.

—  E ben altre capacità, mio signore.

—  Allora preferiresti che fosse lui ad accompagnarmi, e che io ti lasciassi qui?

—  No! Ma terno…

—  Che cosa temi?

Gli occhi del ragazzo s’inondarono di lacrime. — Temo di deluderti.

L’arcimago si girò di nuovo verso il fuoco. — Siediti, Arren — disse, e il ragazzo andò a mettersi sul sedile di pietra all’angolo del camino. — Non ti ho scambiato per un mago o un guerriero, o per qualcosa di compiuto. Non lo so cosa sei, ma sono lieto di sapere che sai governare una barca… Ciò che sarai in avvenire, nessuno lo sa. Ma so questo: tu sei il figlio di Morred e di Serriadh.

Arren tacque a lungo. — È vero, mio signore — disse infine. — Ma… — L’arcimago rimase in silenzio, e lui fu costretto a terminare la frase: — Ma io non sono Morred. Sono soltanto me stesso.

—  Non sei fiero della tua discendenza?

—  Sì, ne sono fiero… perché fa di me un principe; è una responsabilità, qualcosa di cui devo essere degno…

L’arcimago annuì, bruscamente. — È appunto ciò che intendevo. Negare il passato è negare il futuro. Un uomo non può creare il proprio destino: lo accetta o lo rinnega. Se le radici del rowan sono poco profonde, non ha una chioma fronzuta. — A questo punto Arren alzò gli occhi, stupito, perché il suo vero nome, Lebannen, era quello dell’albero di rowan. Ma l’arcimago non aveva detto il suo nome. — Le tue radici sono profonde — proseguì. — Possiedi forza, e devi avere spazio, molto spazio per crescere. Perciò, invece di un tranquillo viaggio di ritorno a Enlad, ti offro un viaggio insicuro, verso una meta sconosciuta. Non è necessario che tu venga: la scelta spetta a te. Ma io te la offro. Perché sono stanco di luoghi sicuri, e di tetti e di muri che mi imprigionano. — S’interruppe bruscamente, guardandosi intorno con gli occhi penetranti come se non vedesse nulla. Arren lesse la sua inquietudine profonda, e ne ebbe paura. Tuttavia la paura acuisce l’esaltazione: e con un tuffo al cuore disse: — Mio signore, scelgo di venire con te.


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