Dopo di che, l’analisi venne condotta ancora più in là. Ciò che rendeva così difficilmente accettabile l’idea che anche lo spazio avesse una natura corpuscolare non era tanto il fattore dimensioni — una scala, cioè, subsubmicroscopica — quanto la violenza delle energie in gioco.

Nessuno era in grado di immaginarsi davvero un milionesimo di centimetro, ma il milione — mille migliaia — era una quantità a tutti familiare. Dire che ci volevano un milione di organismi microscopici, dei virus ad esempio, messi uno accanto all’altro per raggiungere la lunghezza di un centimetro, era cosa che la mente era perfettamente in grado di concepire.

Ma un milionesimo di milionesimo di centimetro? Era questa grosso modo la dimensione dell’elettrone, che era proprio impossibile visualizzare. La si poteva forse comprendere razionalmente, ma non certo intuitivamente.

Eppure gli eventi che riguardavano la struttura stessa dello spazio avvenivano a una scala ancora incredibilmente inferiore a tal punto che, in confronto, una formica e un elefante avevano, in pratica, le stesse dimensioni. Se ci si immaginava la struttura dello spazio come una massa schiumosa, formata da tante bollicine (un modello questo fuorviante in modo quasi irrimediabile, ma pur sempre una prima approssimazione alla verità) allora queste bollicine avevano un diametro di…

… un millesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo…

… di centimetro.

E ora ci si immagini che queste bolle esplodano liberando energie paragonabili a una bomba atomica, e che poi riassorbano queste energie e di nuovo le liberino, e così via per sempre.

Questo era il modello, qui esposto in modo rozzamente semplificato, che secondo alcuni fisici della seconda metà del secolo ventesimo meglio descriveva la struttura fondamentale dello spazio. Che si potessero mai sfruttare queste energie dev’essere apparsa, a quei tempi, una congettura ridicola.

Così appariva, alla generazione precedente, l’idea di sfruttare le forze contenute nel nucleo dell’atomo; ciò che invece era diventato realtà nel giro di trenta o quarant’anni. Imbrigliare le «fluttuazioni quantiche» legate alle energie dello spazio stesso era un compito infinitamente più difficile — ma che avrebbe procurato vantaggi incommensurabilmente più grandi.

Ciò avrebbe dato all’umanità, tra le altre cose, il dominio dell’universo.

Un’astronave sarebbe stata in grado di accelerare praticamente per sempre, giacché non avrebbe avuto bisogno di carburante di alcun genere. L’unico ostacolo che in pratica avrebbe limitato la velocità sarebbe stato lo stesso contro il quale dovevano lottare i primi aeromobili, e cioè l’attrito col mezzo circostante. Nello spazio interstellare sono presenti quantità misurabili di idrogeno nonché di altri atomi, cosa che avrebbe potuto dare noie molto prima di raggiungere la velocità massima possibile nell’universo, e cioè la velocità della luce.

Il motore quantico si sarebbe potuto costruire in ogni momento a partire dal 2500, e la storia delle specie — come era accaduto molte altre volte nel tortuoso processo del progresso scientifico — osservazioni sbagliate e teorie erronee avevano ritardato l’esito finale di almeno mille anni.

I secoli febbrili degli Ultimi Giorni videro arte grandissima — per quanto spesso decadente — ma scarsi progressi nelle scienze. Inoltre, i molti insuccessi avevano convinto quasi tutti che sfruttare le energie dello spazio era, come il concetto di moto perpetuo, un’idea impossibile anche in teoria, figuriamoci nella pratica. A differenza del moto perpetuo, però, questa impossibilità non era ancora stata dimostrata scientificamente, e fino a quando non si fosse avuta questa dimostrazione rimaneva una speranza.

Solo centocinquant’anni prima della fine, un gruppo di studio del satellite di ricerca a gravità zero Lagrange Uno annunciò di poter dimostrare l’impossibilità di sfruttare le immense energie del superspazio.

Nessuno mostrò soverchio interesse per questa puntualizzazione che faceva ordine in un oscuro cantuccio della scienza.

Un anno dopo, da Lagrange Uno venne un imbarazzato colpetto di tosse. Nella dimostrazione era stato compiuto un piccolo errore. Non era la prima volta che una cosa del genere succedeva nella storia, ma mai prima una svista aveva avuto conseguenze così enormi.

Un meno era stato per sbaglio trasformato in un più.

Da quel momento tutto il mondo cambiò radicalmente. La via verso le stelle era ormai aperta, e mancavano cinque minuti alla mezzanotte.

III. L’ISOLA MERIDIONALE

10. Primo contatto

Forse ci sarei dovuto arrivare più gradualmente, si disse Moses Kaldor.

Sembrano tutti in stato di shock. Ma anche questo è molto istruttivo; sebbene questa gente sia tecnologicamente arretrata (basta guardare quell’automobile!) si dovranno rendere conto che solo un miracolo tecnologico ci ha potuto portare dalla Terra a Thalassa. Prima si chiederanno come abbiamo fatto. E poi cominceranno a chiedersi perché.

Ed effettivamente fu quella la prima cosa cui pensò la Waldron. Quei due uomini a bordo della navetta erano evidentemente solo l’avanguardia.

Su in orbita c’era, forse, gente a migliaia, a milioni, magari. E la popolazione di Thalassa aveva già raggiunto, grazie a un rigoroso controllo delle nascite, il novanta per cento dell’optimum ecologico…

«Io sono Moses Kaldor» disse il visitatore più anziano. «Vi presento il tenente comandante Loren Lorenson, capo tecnico assistente della nave spaziale Magellano. Ci scusiamo per questi nostri scafandri a bolla… servono a garantire una protezione reciproca. Noi vi siamo amici, ma i nostri batteri la possono pensare diversamente…»

Che bella voce, si disse la Waldron, e aveva proprio ragione. Un tempo quella era la voce più famosa del mondo, la voce che negli ultimi decenni prima della Fine aveva confortato — e qualche volta provocato — milioni di esseri umani.

Ma l’occhio notoriamente avido della Waldron non indugiò a lungo su Moses Kaldor; si vedeva che aveva superato di parecchio i sessanta, e per lei era troppo vecchio. L’altro era più giovane e le andava più a genio, anche se lei dubitava di riuscire mai ad abituarsi a quel loro spettrale pallore. Loren Lorenson (che bel nome!) era alto quasi due metri, e aveva capelli così biondi da parere d’argento. Non era muscoloso come — be’, come Brant — ma sicuramente era più bello.

Il sindaco Waldron era buon giudice sia degli uomini sia delle donne, e classificò subito Lorenson. Un uomo intelligente, deciso, forse anche spietato. Non le sarebbe piaciuto averlo di fronte come nemico, ma avrebbe molto apprezzato di averlo a fianco come amico. O, meglio ancora…

Al tempo stesso non aveva il minimo dubbio che Kaldor fosse molto più buono. Nel suo volto, nella sua voce, si sentiva saggezza, compassione, e anche una profonda tristezza Né c’era da meravigliarsene, se si pensava all’ombra sotto la quale aveva trascorso tutta la sua vita.

Anche gli altri Thalassani s’erano avvicinati, e vennero presentati uno alla volta ai due visitatori. Brant dopo il minimo indispensabile di convenevoli si occupò esclusivamente dell’aeromobile, esaminandolo da prua a poppa.

Loren gli si avvicinò; riconosceva d’istinto i tecnici come lui e contava di apprendere parecchie cose dalle reazioni dell’altro. Prevedeva quale sarebbe stata la prima domanda di Brant, ma fu colto alla sprovvista lo stesso.

«Che sistema di propulsione usate? Questi ugelli sono ridicolmente piccoli per un veicolo a reazione… se sono ugelli, poi.»

Era un’osservazione molto acuta; quella gente non era poi tecnologicamente così sprovveduta come pareva a prima vista. Ma non conveniva mostrare la sua sorpresa. Meglio contrattaccare dritto e deciso.


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