Perfino all’alba dell’Età dello Spazio le prime sonde robot che avevano lasciato il Sistema Solare portavano con sé musica registrata, messaggi e immagini in previsione di incontrare altri esploratori cosmici. E sebbene in tutta la galassia non si fosse riscontrato un solo segno di vita aliena, anche i più pessimisti erano convinti che l’intelligenza doveva per forza nascere anche in qualche altra parte dei miliardi di altri universi isola che si stendevano fin dove poteva giungere il più potente dei telescopi.
Per secoli e secoli si provvide a trasmettere — un terabyte dopo l’altro — tutta la conoscenza e la cultura dell’uomo verso la nebulosa di Andromeda e le altre nebulose più lontane. Nessuno, naturalmente, avrebbe mai saputo se quei segnali sarebbero mai stati captati e, se captati, se sarebbero stati decifrati. Tuttavia l’iniziativa nasceva da un desiderio comune a gran parte dell’umanità, dall’istinto di lasciare un ultimo segno di sé, un ultimo messaggio che dicesse: «Ehi, anch’io un tempo ero vivo!».
Verso l’anno 3000 gli astronomi avevano ormai individuato con giganteschi telescopi orbitali tutti i sistemi planetari esistenti nel raggio di cinquecento anni luce dal Sole. Erano stati scoperti decine di pianeti simili alla Terra, e alcuni dei più vicini erano anche stati cartografati, sebbene in modo approssimativo. In certuni l’atmosfera presentava l’inequivocabile testimonianza della vita, e cioè una percentuale d’ossigeno insolitamente elevata. Vi erano ragionevoli probabilità che gli uomini avrebbero potuto sopravvivere su quei pianeti — se mai fossero stati capaci di raggiungerli.
Gli uomini non potevano raggiungerli, ma l’Uomo sì.
Le prime navi inseminatrici erano molto primitive, ma egualmente sfruttavano le tecnologie disponibili fino al limite estremo. Con i sistemi di propulsione disponibili verso l’anno 2500, erano in grado di raggiungere il sistema planetario più vicino in duecento anni trasportando un prezioso carico di embrioni surgelati.
Ma questo era il meno impegnativo dei loro compiti. Dovevano anche trasportare le attrezzature automatiche per riportare alla vita quegli esseri umani potenziali, per farli crescere e per insegnar loro a sopravvivere in un ambiente sconosciuto e forse ostile. Sarebbe stato inutile — e, anzi, crudele — depositare bambini ignudi e ignari di tutto su mondi inospitali quanto il Sahara o l’Antartico. Bisognava dunque educarli, fornire loro utensili, mostrare loro come individuare e impiegare le risorse locali. La nave inseminatrice una volta atterrata doveva dunque diventare una Nave Madre, e proteggere la sua progenie per generazioni e generazioni.
Inoltre andavano trasportati non solo gli esseri umani, ma anche un ambiente ecologico completo. Andavano inclusi anche vegetali (sebbene nessuno potesse sapere se si sarebbe trovato un suolo adatto per piantarli), animali domestici, e una sorprendente varietà di insetti e di microrganismi per tener conto della possibilità che i normali sistemi di produzione alimentare si guastassero e bisognasse tornare alle tecniche agricole di un tempo.
Bisognava dunque ricominciare da zero, e ciò comportava alcuni vantaggi. Tutte le malattie e i parassiti che avevano da sempre afflitto l’umanità sarebbero rimasti sulla Terra, e sarebbero andati distrutti dal fuoco del Sole trasformato in nova.
Banche dati, sistemi esperti in grado di affrontare ogni situazione concepibile, robot, meccanismi in grado di effettuare riparazioni e sostituzioni, tutto ciò andava progettato e costruito. E bisognava che fossero in grado di funzionare per un lasso di tempo eguale a quello che intercorre tra la Dichiarazione d’Indipendenza e il primo atterraggio sulla Luna.
L’impresa appariva quasi impossibile, ma affascinante a tal punto che quasi tutta l’umanità si unì per cercare di realizzarla. Era un obiettivo a lungo termine — l’obiettivo a lungo termine per eccellenza — che avrebbe potuto dare un qualche significato alla vita anche dopo che la Terra fosse andata distrutta.
La prima nave inseminatrice lasciò il Sistema Solare nell’anno 2553 diretta verso la stella più vicina e più simile al Sole, e cioè Alpha Centauri A. Sebbene le condizioni ambientali del pianeta di tipo terrestre denominato Pasadena fossero contrassegnate da violente perturbazioni a causa della vicinanza di Alpha Centauri B, la più vicina tra le altre destinazioni possibili avrebbe comportato un viaggio due volte più lungo.
Infatti per raggiungere il decimo pianeta orbitante attorno a Sirio sarebbero stati necessari più di quattrocento anni; quando la nave inseminatrice vi fosse atterrata, la Terra sarebbe già stata distrutta da tempo.
Invece, se Pasadena era suscettibile di venire colonizzato, la Terra avrebbe fatto in tempo a sapere la buona notizia. Duecento anni per il viaggio, cinquant’anni per assestarsi e costruire una piccola trasmittente, e poi ancora quattro anni soltanto prima che il messaggio raggiungesse la Terra — dove, con un po’ di fortuna, la gente avrebbe esultato per le strade verso l’anno 2800…
Il messaggio arrivò nel 2786; Pasadena era stato un successo migliore del previsto. La notizia diede nuovo slancio al programma d’inseminazione. Già erano state lanciate una ventina di navi, ognuna migliore di quella che la precedeva. Gli ultimi modelli raggiungevano una velocità pari a un ventesimo della velocità della luce, e più di cinquanta possibili destinazioni erano alla loro portata.
Dopo il messaggio con cui si annunciava l’avvenuto atterraggio, la trasmittente su Pasadena tacque per sempre. Tuttavia vi fu uno scoramento soltanto momentaneo. Ciò che era stato fatto una volta si poteva rifare una seconda volta, e poi ancora, con sempre maggiori probabilità di successo.
Verso il 2700 la rozza tecnica degli embrioni surgelati venne abbandonata. Il messaggio genetico che la Natura ha codificato nella struttura a spirale del DNA poteva venir registrato con maggiore facilità e sicurezza, e anche in modo più compatto, nelle memorie dei computer più moderni, così che risultava possibile trasportare un milione di genotipi con una nave inseminatrice non più grande di un aereo da mille passeggeri. Si poteva raccogliere in qualche centinaia di metri cubi da inviare sulle stelle una nazione intera, con tutte le apparecchiature di replicazione necessarie per far nascere una nuova civiltà.
Questo, come sapeva Brant, era quanto era avvenuto su Thalassa settecento anni prima. Già, via via che la strada si addentrava tra le colline, avevano oltrepassato alcune delle cicatrici lasciate dai primi escavatori robot alla ricerca delle materie prime con cui creare i loro antenati. Tra poco avrebbero visto gli impianti di lavorazione, da lungo tempo abbandonati, e…
«E quello cos’è?» esclamò il consigliere Simmons con un roco sussurro.
«Ferma!» ordinò il sindaco. «Brant, spegni il motore.» Prese il microfono appeso al cruscotto.
«Parla il sindaco Waldron. Siamo alla settima pietra miliare. Davanti a noi c’è una luce, la vediamo attraverso gli alberi. Direi che si trova proprio nel punto del Primo Atterraggio. Non si sente niente. Ora ci rimettiamo in marcia.»
Brant rimise in moto senza che la Waldron avesse bisogno di dir nulla.
Quello era l’avvenimento più eccitante che gli fosse capitato in vita sua, secondo forse soltanto a quando aveva rischiato di venire trascinato via dall’uragano del ‘09.
No, quell’esperienza era stata più che eccitante; era fortunato a esserne uscito vivo. Forse anche questa volta rischiava grosso, sebbene lui pensasse di no. Potevano dei robot mostrarsi ostili? Che altro si voleva pretendere da un mondo come Thalassa se non conoscenza e amicizia?
«Sapete» disse il consigliere Simmons «io ho visto bene quell’affare prima che sparisse dietro gli alberi, e sono sicuro che era un apparecchio per il volo atmosferico. Le navi spaziali non hanno ali e non sono aerodinamiche, com’è ovvio. E poi era molto piccolo.»