… il continente antartico venire alla luce per breve tempo, disseppellito dai ghiacci antichi disciolti e bruciati dal calore spaventoso…
… la possente arcata centrale del Ponte di Gibilterra fondersi mentre si afflosciava nell’aria in fiamme…
In quell’ultimo secolo la Terra era popolata di fantasmi, i fantasmi non dei trapassati ma di coloro che non sarebbero potuti nascere mai più. Da cinquecento anni il tasso di natalità era stato tenuto basso, così che la popolazione della Terra era ridotta a pochi milioni di uomini quando giunse la fine. Intere città — addirittura intere nazioni — erano ormai spopolate quando l’umanità si riunì per l’ultimo atto della Storia.
Fu quello un tempo di strani paradossi, di terribili altalene tra la disperazione più nera e l’esaltazione più febbrile. Molti cercarono l’oblio ricorrendo ai mezzi tradizionali delle droghe, del sesso e degli sport pericolosi, tra i quali andavano annoverate vere e proprie guerre in miniatura, tenute sotto controllo e combattute con armamenti minuziosamente concordati. Egualmente popolari erano tutte le forme di catarsi elettronica: video games interminabili, sceneggiati interattivi, la stimolazione diretta dei centri del piacere.
Giacché non era più necessario pensare al futuro su questo pianeta, le risorse della Terra e le ricchezze accumulate in molti millenni vennero scialacquate a cuor leggero. Riguardo al possesso di beni materiali, tutti gli esseri umani erano più che miliardari, ricchi più di quanto avessero sognato mai i loro antenati, da cui avevano ereditato i frutti delle loro fatiche. Si facevano chiamare, senza mezzi termini, non senza un certo orgoglio, i Signori degli Ultimi Giorni.
Eppure, mentre migliaia di esseri umani cercavano l’oblio, un numero ancora maggiore ricercava la soddisfazione che deriva dal lavorare per mete che noi personalmente non vedremo mai raggiunte, cosa che in passato aveva attirato solo pochi individui. La ricerca scientifica non s’interruppe, e anzi poté usufruire delle immense risorse che si erano rese disponibili. Se a un fisico servivano due tonnellate d’oro per condurre un certo esperimento, il problema era semmai logistico, non certo finanziario.
Tre erano le linee di ricerca principali. In primo luogo veniva l’ininterrotto monitoraggio del Sole, non perché vi fosse qualche dubbio su quanto sarebbe successo, ma per predire esattamente l’anno, il giorno, l’ora in cui il Sole sarebbe esploso…
Veniva quindi la ricerca dell’intelligenza extraterrestre, trascurata dopo secoli di insuccessi e ora ripresa con disperata urgenza, e che continuava a non dare risultato alcuno. Alle invocazioni dell’Uomo l’universo continuava a opporre il silenzio.
In terzo luogo, naturalmente, c’era l’inseminazione delle stelle più vicine nella speranza che l’umanità non si sarebbe estinta insieme al suo Sole.
All’inizio dell’ultimo secolo, le navi inseminatrici — ognuna più veloce e sofisticata della precedente — avevano già raggiunto cinquanta sistemi stellari. La maggior parte dei tentativi, com’era prevedibile, era fallito; tuttavia dieci navi avevano trasmesso un messaggio in cui si annunciava un successo almeno parziale. Si sperava molto negli ultimi modelli, sebbene queste navi avrebbero raggiunto la loro destinazione quando la Terra sarebbe stata ormai distrutta da molto tempo. L’ultima nave che venne lanciata raggiungeva un ventesimo della velocità della luce e sarebbe giunta a destinazione dopo un viaggio di novecentocinquant’anni — se tutto fosse andato bene.
Loren ricordava bene il lancio dell’Excalibur dalla sua incastellatura posta nel punto di Lagrange, a metà strada tra la Terra e la Luna. Aveva solo cinque anni, ma sapeva che quella sarebbe stata l’ultima nave inseminatrice. Ma era ancora troppo giovane per capire il motivo per cui un programma vecchio di secoli era stato interrotto proprio quando aveva raggiunto la sua fase tecnologica più matura. E neppure poteva immaginare quanto la sua vita sarebbe stata cambiata dall’incredibile scoperta che aveva trasformato radicalmente la situazione, dando all’umanità una nuova speranza proprio negli ultimi decenni della sua storia sulla Terra.
Malgrado gli innumerevoli studi teorici, nessuno era mai riuscito a elaborare un metodo ragionevole per inviare un’astronave con esseri umani a bordo nemmeno sulla stella più vicina. Che il viaggio richiedesse un secolo non era il fattore decisivo; il problema si poteva risolvere agevolmente con l’ibernazione. Una scimmia rhesus dormiva nel satellite ospedale Louis Pasteur da mille anni o quasi, e ancora mostrava un’attività cerebrale perfettamente normale. Non vi era motivo per supporre che anche gli esseri umani non avrebbero potuto fare lo stesso — per quanto in questo caso il periodo più lungo passato in ibernazione, nel caso di un paziente affetto da un cancro particolarmente ribelle a ogni cura, non arrivasse ai duecento anni.
Il problema biologico era stato risolto; era il problema meccanico che appariva insuperabile. Un’astronave in grado di trasportare alcune migliaia di passeggeri ibernati, più tutto ciò di cui costoro avrebbero avuto bisogno per iniziare una nuova vita su un altro mondo, avrebbe dovuto essere grande quanto i transatlantici che un tempo attraversavano gli oceani della Terra.
Non sarebbe stato difficile costruire una simile astronave oltre l’orbita di Marte impiegando le abbondanti risorse della fascia degli asteroidi. Ma restava impossibile progettare motori in grado di farle raggiungere le stelle in un ragionevole lasso di tempo.
Anche viaggiando a un decimo della velocità della luce, tutte le destinazioni più promettenti rimanevano lontane più di cinquecento anni di viaggio. Velocità così elevate erano raggiungibili dalle sonde robot, che sfrecciavano attraverso i sistemi stellari più vicini e trasmettevano le rilevazioni durante le poche ore del loro passaggio. Ma non potevano rallentare per un rendezvous o un atterraggio; a parte eventuali incidenti, avrebbero continuato a sfrecciare attraverso la galassia per sempre.
Questo era l’inconveniente fondamentale della propulsione a razzo — e nessuno aveva ancora scoperto un motore d’altro tipo adatto alla navigazione spaziale su lunghe distanze. Rallentare era difficile quanto accelerare, e portare con sé il propellente necessario alla decelerazione non raddoppiava la difficoltà della missione, ma la elevava al quadrato.
Era possibile costruire una grande ibernave che raggiungesse una velocità pari a un decimo della velocità della luce. Avrebbe richiesto circa un milione di tonnellate di esotici composti chimici da impiegare come propellente sarebbe stato difficile, ma non impossibile.
Ma per poter annullare quella velocità alla fine del viaggio la nave sarebbe dovuta partire non con un milione ma con un milione di milioni di tonnellate di carburante Ciò era ovviamente fuori questione, e nessuno aveva preso seriamente in considerazione la cosa da secoli.
Fu allora che, per uno degli scherzi più ironici della storia, l’Umanità entrò in possesso delle chiavi dell’Universo con meno di un secolo a disposizione per farne uso.