Le dissi che pensavo di potermela cavare. La tastiera pareva familiare (era un comunissimo Kensington 400).

Quella insistette: — Sarei lieta di fare io per voi. Non ho clienti che aspettano. — Doveva avere sui sedici anni: viso dolce, voce gradevole, modi che mi convinsero che rendersi utile le piaceva sul serio.

L’ultima cosa che volessi era l’aiuto di qualcuno mentre maneggiavo carte di credito che non erano mie. Così le passai una mancia di dimensioni medie e le spiegai che preferivo fare da sola; ma promisi che avrei urlato, se mi fossi trovata in difficoltà.

Lei protestò che non c’era bisogno di mance, ma non insistette per restituire i soldi, e se ne andò.

«Adolf Belsen» prese la sotterranea per Il Cairo, poi il semibalistico per Hong Kong, dove aveva prenotato una stanza al Peninsula; il tutto grazie ai buoni uffici del Diners Club.

«Albert Beaumont» era in vacanza. Prese il Safari Jet per Timbuctu, dove l’American Express l’aveva sistemato per due settimane al lussuoso Shangri-La, sulla riva del mare del Sahara.

La Banca di Hong Kong pagò ad «Arthur Bookman» il viaggio fino a Buenos Aires.

«Archibald Buchanan» visitò la sua città natale, Edimburgo, pagando con la MasterCard. Dato che poteva fare l’intero viaggio in sotterranea, con una coincidenza al Cairo e un cambio automatico a Copenhagen, avrebbe dovuto raggiungere la patria dei suoi avi in un paio d’ore.

Poi usai il computer per fare diverse indagini; ma niente prenotazioni, niente acquisti, e solo memoria temporanea.

Soddisfatta, lasciai la cabina e chiesi all’inserviente con le fossette se l’ingresso della metropolitana che vedevo nell’atrio mi avrebbe portata o meno al Fat Man.

Lei mi spiegò quale percorso seguire. Così scesi al metrò e presi il treno per Mombasa, pagando di nuovo in contanti.

Mombasa è a soli trenta minuti, quattrocentocinquanta chilometri, da Nairobi, però è a livello del mare, il che fa sembrare paradisiaco il clima di Nairobi; me ne andai il più in fretta possibile. Così ventisette ore più tardi ero nella provincia dell’Illinois dell’Impero di Chicago. Parecchio tempo dirà qualcuno, per un arco a cerchio massimo di soli 13 mila chilometri. Però io non seguii il cerchio massimo e non superai una sola barriera doganale o un punto di controllo dell’immigrazione. E non usai carte di credito, nemmeno quelle rubate. E riuscii persino a dormire per sette ore di fila nello Stato Libero dell’Alaska; praticamente non avevo chiuso occhio da quando avevo lasciato la città spaziale di Elle-Cinque, due giorni prima.

Come feci? Segreto professionale. Forse a me quel particolare percorso non servirà più, ma in futuro potrebbe averne bisogno un mio collega. D’altra parte, come dice il mio boss, con tutti quanti i governi che non fanno altro che diventare più rigidi appena possono, coi loro computer e i loro Occhi Pubblici e altri novantanove tipi di sorveglianza elettronica, ogni persona libera ha il dovere di combattere alla minima occasione possibile: tenere in funzione le ferrovie segrete, tenere le tendine chiuse, dare informazioni sbagliate ai computer. I computer hanno una mentalità letterale e stupida; le documentazioni elettroniche sono documentazioni solo per modo di dire… Per cui è bene essere pronti a sfruttare le occasioni per fregare il sistema. Se non puoi sfuggire alle tasse, paga un po’ troppo per confondere i loro computer. Imbroglia le cifre. E così via…

La chiave per viaggiare per metà del pianeta senza lasciare tracce è: pagare in contanti. Mai carte di credito, mai qualcosa che entri in un computer. E una bustarella non è mai una bustarella; in questi trasferimenti di denaro, il beneficiario deve sempre salvare la faccia. Ovunque, per quanto strapagati, i dipendenti pubblici sono convinti di essere orribilmente sottopagati; ma nel petto di ogni dipendente pubblico batte il cuore di un ladro, altrimenti non mangerebbero al piatto pubblico. Queste due realtà sono tutto ciò che vi occorre, però state attenti! Siccome il dipendente pubblico non ha rispetto di sé, vuole ed esige dimostrazioni di pubblico rispetto.

Io soddisfo sempre questa loro esigenza, e il viaggio si era svolto senza incidenti. (Non contai il fatto che il Nairobi Hilton, colpito da un’esplosione, era finito arrosto pochi minuti dopo che io ero salita sul metrò per Mombasa; credere che l’incidente avesse a che fare con me mi sarebbe parso estremamente paranoico).

Mi sbarazzai di quattro carte di credito e di un passaporto non appena sentii la notizia, ma avevo già deciso di prendere quella precauzione. Se il nemico voleva eliminarmi (possibile ma improbabile), distruggere una proprietà che valeva milioni di corone e uccidere o ferire centinaia o migliaia di persone solo per arrivare a me sarebbe stato come dare la caccia a una mosca con un’accetta. Indegno di veri professionisti.

Be’, dipende. Comunque ero di nuovo nell’Impero, e avevo portato a termine un’altra missione con pochi errori secondari. Mentre prendevo l’uscita per i Prati Lincoln, meditai che mi ero guadagnata abbastanza buoni-punto per costringere il boss a concedermi qualche settimana di Riposo&Relax in Nuova Zelanda. La mia famiglia, un gruppo-S di sette persone, viveva a Christchurch; non li vedevo da sei mesi. Che bello!

Nel frattempo potevo godermi l’aria fresca, pulita, e la bellezza rustica dell’Illinois; non era un’Isola del Sud, ma era il miglior surrogato disponibile. Si dice che un tempo questi prati fossero coperti da squallide fabbriche, ed è difficile crederlo. Dalla stazione, l’unico edificio visibile era il gruppo di stalle dell’Avis, dall’altra parte della strada.

Davanti allo steccato di fronte alla stazione c’erano due calessi da noleggio dell’Avis, oltre ai soliti carri e carretti delle fattorie. Stavo per prendere uno dei calessi dell’Avis quando riconobbi la vettura che arrivava in quel momento: una magnifica pariglia di bai aggiogata a un landò Lockheed. — Zio Jim! Qua! Sono io!

Il cocchiere si portò la frusta alla tesa del cappello, poi fermò la pariglia. Il landò era davanti agli scalini dove io aspettavo. Zio Jim saltò a terra e si tolse il cappello. — È bello riavervi a casa, signorina Friday.

Gli regalai un abbraccio veloce che lui sopportò pazientemente. Zio Jim Prufit aveva idee ferree sul decoro e sulle buone maniere. Si raccontava che fosse stato accusato di simpatie papiste; qualcuno addirittura diceva che lo avevano colto in flagrante a celebrare la messa. Altri dicevano che erano solo balle, che si era infiltrato per l’agenzia e si era addossato la colpa per proteggere altri. In quanto a me, non ne so molto di politica, però immagino che un prete abbia modi piuttosto formali, si tratti di un vero sacerdote o di uno del nostro mestiere. Potrei sbagliarmi; non credo di avere mai visto un prete.

Mentre lui mi aiutava a salire, facendomi sentire una vera signora, gli chiesi: — Come mai eri da queste parti?

— Mi ha mandato a prendervi il Padrone, signorina.

— Davvero? Ma non l’ho informato dell’ora del mio arrivo. — Cercai di scoprire chi, nel mio percorso di ritorno, poteva fare parte della rete dati di Boss. — A volte penso che il boss abbia una sfera di cristallo.

— Sembra proprio, vero? — Jim fece partire Gog e Magog, e ci avviammo alla fattoria. Mi appoggiai all’indietro e mi rilassai, ascoltando il cloppete cloppete allegro, familiare degli zoccoli dei cavalli sul terreno.

Riaprii gli occhi quando Jim svoltò al nostro cancello, ed ero perfettamente sveglia quando passammo sotto la porte cochère. Saltai giù senza aspettare di ridiventare una «signora» e mi girai per ringraziare Jim.

Mi balzarono addosso dai due lati.

Il caro vecchio zio Jim non mi mise in guardia. Restò lì a guardare mentre mi mettevano fuori combattimento.


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