Janet scese dal letto, si alzò, lo baciò. — Adesso smetti di preoccuparti! Smettila. Immediatamente. È chiaro che controllerai tutto tu stesso finché non prenderanno i sabotatori. Ma al momento togliti questa cosa dalla testa perché non ti chiederanno di decollare prima che i circuiti di comunicazione siano ristabiliti. Quindi farai festa. In quanto a Betty e Freddie è un peccato non poter parlare con loro, però sanno badare a se stessi, e lo sai. Senz’altro anche loro si staranno preoccupando per noi e non dovrebbero. Io sono contenta che sia successo adesso che sei a casa e non dall’altra parte del mondo. Sei qui e sei al sicuro ed è l’unica cosa che mi importi. Ce ne staremo qui felici e caldi finché questa fesseria sarà finita.
— Io devo andare a Vancouver.
— Uomo, tu non devi fare niente, a parte pagare le tasse e morire. Non infileranno creature sintetiche sulle navi se nessuna nave decolla.
— Creature sintetiche — sbottai, e me ne pentii.
Ian parve vedermi per la prima volta. — Ciao, Marj. Buongiorno. Non devi preoccuparti di nulla, e mi spiace che sia successo questo casino mentre eri nostra ospite. Jan alludeva a un’idea folle della nostra direzione. Si sono messi in testa che una creatura sintetica progettata per la navigazione possa fare il mio lavoro meglio di un vero uomo. Io sono della commissione interna di Winnipeg, quindi oppormi è compito mio. Domani a Vancouver c’è un incontro fra direzione e sindacato.
— Ian — disse Jan — chiama il segretario generale. È stupido andare a Vancouver senza prima controllare.
— Okay, okay.
— Però non essere accomodante. Insisti col segretario perché prema sulla direzione per rimandare l’incontro finché non sarà cessata l’emergenza. Voglio che tu resti qui e mi salvi dal pericolo.
— O viceversa.
— O viceversa — ammise lei. — Ma sverrò fra le tue braccia, se sarà necessario. Cosa vuoi per colazione? Niente di troppo complicato, se non invocherò l’applicazione del tuo impegno formale.
Io non ascoltavo più. Le parole creatura sintetica avevano fatto scattare qualcosa in me. Ian (e anche tutti gli altri, a dire il vero, nelle zone alte e basse del mio cervello) mi aveva dato l’impressione di essere tanto civile e colto da considerare la mia razza alla stessa stregua degli umani.
E adesso scoprivo che era impegnato a rappresentare il suo sindacato in un conflitto direzione-dipendenti per impedire alla mia razza di competere con gli umani.
(Secondo te cosa dovremmo fare, Ian? Tagliarci la gola? Non abbiamo chiesto noi di essere prodotti, come tu non hai chiesto di nascere. Forse non siamo umani ma condividiamo l’antico fato degli uomini: siamo stranieri in un mondo non costruito da noi.)
— Allora, Marj?
— Scusa. Mi ero persa. Cosa hai detto, Jan?
— Ti ho chiesto cosa vuoi per colazione, tesoro.
— Oh, fa lo stesso. Mangio tutto quello che sta fermo e persino quello che si muove lentamente. Posso venire a darti una mano? Per favore.
— Speravo che me lo offrissi. Perché Ian serve a poco in cucina, nonostante l’impegno che ha firmato.
— Sono un cuoco coi fiocchi!
— Sì, amore. Ian si è impegnato per iscritto a prepararmi i pasti ogni volta che glielo chiedo. E lo fa; non ha cercato di sottrarsi alle sue responsabilità. Ma devo avere una fame mostruosa per fargli tenere fede all’accordo.
— Marj, non stare a sentirla.
Ignoro ancora se Ian sappia cucinare, ma di certo Janet ci sa fare (e anche Georges, come appresi in seguito). Janet ci servì, con un aiuto marginale da parte mia, omelette al formaggio dolce soffici e leggere, circondate da tenere frittelle con zucchero a velo e marmellata arrotolate all’europea e guarnite di pancetta ben rosolata. Più succo d’arancia ottenuto da frutti spremuti di fresco; spremuti a mano, non ridotti in poltiglia da una macchina. Più caffè forte ricavato da chicchi macinati di fresco.
(Il cibo della Nuova Zelanda è ottimo, ma la cucina della Nuova Zelanda praticamente non è cucina.)
Georges apparve con la perfetta scelta di tempi di un gatto; in questo caso di mamma gatta, che seguì Georges precedendolo. I micini vennero espulsi per editto di Janet, perché Jan era troppo indaffarata per stare attenta a non pestarli. Inoltre Janet decretò che mentre mangiavamo avrebbe escluso il notiziario e che l’emergenza non sarebbe stata argomento di conversazione a tavola. L’idea mi andava benissimo, perché quegli eventi strani e cupi avevano continuato a ronzarmi nel cervello da che erano iniziati, anche mentre dormivo. Come fece notare Janet mentre dettava quell’ordine, solo una bomba H poteva penetrare le nostre difese, e dell’esplosione di una bomba H non ci saremmo accorti; quindi, rilassiamoci e godiamoci la colazione.
Io me la godetti, e anche mamma gatta, che si mise a pattugliare ai nostri piedi in senso antiorario, informandoci a turno quando era il momento di darle un po’ di pancetta. Credo che la pancetta l’abbia mangiata quasi tutta lei.
Dopo che io ebbi lavato i piatti (recuperati anziché riciclati; in certe cose Janet era all’antica) e Janet ebbe preparato un’altra brocca di caffè, lei riaccese il terminale e noi sedemmo a guardare e discutere le notizie; in cucina invece che nel salone dove avevamo cenato, perché la cucina era de facto il loro soggiorno. Janet possedeva quella che si chiama «cucina di campagna», anche se nessun campagnolo ne ha mai avuta una così bella: un grosso camino, una tavola rotonda per i pasti della famiglia con robuste sedie di legno, grandi sdraio molto comode, un sacco di pavimento libero e nessun problema di traffico perché la preparazione del cibo avveniva al lato opposto della stanza. I micini furono riammessi, il che mise fine alle loro proteste; entrarono tutti code e attenzione. Ne presi uno, un affarino morbido e bianco, con macchie nere; le sue fusa erano più grosse di lui. Chiaramente, la vita amorosa di mamma gatta non era stata limitata da nessun codice; non c’erano due cuccioli identici.
La maggioranza delle notizie erano vecchie, ma nell’Impero si era verificato un nuovo sviluppo.
I democratici venivano arrestati, giudicati da corti marziali riunite all’aperto (tribunali militari, le chiamavano) e giustiziati sul posto: laser, fucilate, qualche impiccagione. Dovetti costringermi a un rigoroso controllo mentale per guardare. Le condanne a morte colpivano fino a quattordici anni di età. Vedemmo una famiglia in cui i due genitori, già condannati, insistevano a sostenere che il figlio aveva solo dodici anni.
Il presidente della corte, un caporale della Polizia Imperiale, mise fine alla discussione togliendo la pistola dal fodero, sparando al ragazzo, e poi ordinando ai suoi uomini di finire i genitori e la sorella maggiore del ragazzo.
Ian tolse il video, passò ai soli flash in audio, e abbassò il volume. — Ho visto tutto quello che voglio vedere — ringhiò. — Credo che chiunque sia al potere dopo la morte del presidente stia liquidando tutti quelli che sono sulla lista dei sospetti.
Si morse il labbro, con aria cupa. — Marj, sei ancora della stupida idea di tornare subito a casa?
— Non sono una democratica, Ian. Sono apolitica.
— Credi che quel ragazzo avesse opinioni politiche? Quei cosacchi ti ucciderebbero solo per divertimento. Comunque, non puoi andartene. Il confine è chiuso.
Non gli dissi che ero certa di poter superare qualunque confine del globo. — Credevo fosse chiuso solo per chi cerca di trasferirsi al Nord. Non lasciano tornare a casa i sudditi dell’Impero?
Lui sospirò. — Marj, non hai più cervello del gattino che tieni in grembo? Non capisci che le ragazzine carine possono farsi male, se insistono a giocare coi ragazzi cattivi? Se fossi a casa, sono sicuro che tuo padre ti direbbe di non uscire. Ma ti trovi qui in casa nostra, e questo dà a Georges e me l’obbligo morale di proteggerti. Eh, Georges?