La campana delle 12,30 suonò prima del solito e Fantozzi nella pausa di colazione andò a casa. Sua moglie era dalla suocera con la bambina. Volò dalla cucina al bagno, dal bagno alla stanza da pranzo per quasi un'ora, alla fine si diresse velocemente verso la stanza da letto, si fermò di colpo e si lasciò cadere a corpo morto sul letto.

Decise di andare in ufficio volando di tetto in tetto a piccoli balzi. Entrò dalla finestra della stanza del quinto piano. Quando Fracchia e Filini, alle 14,30, entrarono gli chiesero: “Già qui, ma a che ora ha timbrato?”. Si era dimenticato di timbrare il cartellino e corse giù al quarto piano e marcò “rosso”.

Cominciò allora per Fantozzi una nuova vita. Andava in ufficio regolarmente con la sua utilitaria, timbrava e aspettava. Aspettava le ore morte del mattino, verso le 11. I colleghi erano di “riposo” e lui solo nella stanza: apriva la finestra e spiccava il volo.

Per la prima settimana faceva dei piccoli svolazzi sui tetti. Una volta arrivò addirittura alla campana della cattedrale e si stupì molto nel vedere tutti quei nidi di rondine nella cella campanaria.

Poi prese coraggio e cominciò ad avventurarsi sul mare, illuminato dal sole, a volo radente. Una volta si riposò sull'albero di un grande transatlantico in rotta per chissà dove: l'Australia, l'Atlantide forse.

Ritornava nella sua stanza verso mezzogiorno. Aveva scoperto un passaggio dai tetti, un vecchio archivio, dove nessuno lo avrebbe potuto vedere. Alle 12,30 timbrava e tornava a casa in macchina.

Nel pomeriggio volava sempre in collina e la cosa che lo esaltava di più era buttarsi giù in picchiata e sfiorare le piante di menta di cui sentiva il profumo. Una sera, tornando in ufficio quando il sole era tramontato, si sentì molto felice.

Una volta fece tardi e rientrò direttamente dalla finestra della sua stanza. Fracchia rimase a bocca aperta. “Ero sul cornicione a… prendere un po' di sole” tentò Fantozzi. “Ma quale cornicione?” domandò Fracchia, che ben sapeva che non c'era alcun cornicione. “Ma lei sa volare!” incalzò Fracchia, e lui dovette confessare.

La notizia rimase circoscritta al suo ufficio, e i colleghi cominciarono a usarlo per piccoli servizi. Qualcuno lo mandava a fare il bollo della macchina, chi a imbucare una raccomandata. Poi cominciarono a usarlo per commissioni esterne della ditta. Era diventato per il suo capufficio un uomo prezioso. La cosa durò un po' di tempo, poi un giorno Fracchia gli chiese: “Ma lei perché non chiede l'indennità di volo? Ne ha diritto, sa?”. Lui allora fece domanda scritta su apposito modulo al capo del personale. Questi rimase stupito, e non osando assumersi alcuna responsabilità domandò consiglio al direttore centrale che si consigliò col Megapresidente.

Il Megapresidente volle subito sapere il nome di questo impiegato che sapeva volare e pensando già dì farne il suo segretario lo volle mettere alla prova.

La “prova” gliela fissarono un venerdì mattino pieno di sole. Gli avevano preparato davanti ai parcheggi delle macchine una piccola pedana di legno di due metri, da dove si doveva buttare. Lui era già pronto alle 8,30 con l'abito blu e una cravatta nuova verde a pallini bianchi.

Alle 11 arrivarono tutti i dirigenti con il Megapresidente e presero posto su delle sedie affittate in una chiesa vicina.

Fantozzi aveva le mani sudate e il cuore gli batteva molto forte. Il Megapresidente fece un gesto imperioso con la mano. Lui attese un attimo e poi si buttò.

Si ruppe la tibia destra. Lo portarono all'ospedale. Il capo del personale lo andò a trovare e gli disse che il presidente era molto seccato per quella farsa, ma che comunque, visto che aveva una figlia, non lo avrebbe licenziato.

Tornò in ufficio appoggiandosi a un bastone e chiese di parlare con il suo direttore. Lo pregò di domandare a Fracchia, a Filini e a tutti i colleghi che lo avevano visto volare e si erano anche serviti di lui se lo consideravano un ciarlatano e lo pregò dì assicurare al Megapresidente che non si trattava di una montatura. Ma con suo grande stupore seppe che tutti, interrogati in merito, avevano già giurato di non averlo mai visto in volo, anzi seppe che qualcuno aveva fatto anche dei commenti negativi sulla sua poca serietà professionale.

Fracchia lo consigliò di farsi vedere da uno psichiatra. Il medico gli spiegò che il fatto era dovuto a superlavoro e gli prescrisse delle pillole. Passò un po' di tempo, e lui stesso cominciò a pensare che tutto fosse frutto della sua immaginazione.

Una mattina, verso le 11, quando tutti erano a “leggere”, si mise al centro della stanza, agitò le braccia e si sollevò, anche se aveva la gamba ingessata.

Tornò al suo posto sorridendo e non disse mai più nulla a nessuno.

LA VOLTA CHE FANTOZZI GIOCÒ A BOCCE

Domenica è stata una giornata infernale con pioggia a dirotto fino a sera, ma la scampagnata con il direttore dell'ufficio acquisti, conte dottor Mughini, era stata programmata da tempo.

L'appuntamento era alle 4 del mattino sotto la casa del conte. Fantozzi alle 3 e venti era già in attesa, stravolto dal sonno. Non aveva dormito per paura di non svegliarsi e aveva due borse sotto agli occhi che gli arrivavano fino alla vita. Il conte si presentò a mezzogiorno in punto: “Mi scusi, mi ero assopito”. Partirono; volle guidare il conte. Dopo tre ore tremende di macchina lungo una strada tutta a curve, nella quale Fantozzi vomitò anche il polmone sinistro, arrivarono alla “Trattoria del cacciatore”: un posto tragico, su una curva pericolosissima, con continuo passaggio di macchine lanciate a folle velocità. Ogni 26 minuti un'utilitaria usciva di strada: ed entrando dalle cucine raggiungeva la sala ristorante e falciava il novanta per cento degli avventori. Ma c'era una tale ressa, in piedi ad aspettare, che gli investiti venivano subito rimpiazzati da nuovi clienti. Fantozzi e il conte aspettarono ventitrè minuti esatti. Poi, dopo il dodicesimo incidente, presero posto. Era finito tutto e mangiarono solo una squallida spaghettata al burro.

“Venga,” il direttore si alzò dandogli una tremenda manata sulle spalle, che gli fece ingoiare l'ultima capsula d'oro, “andiamo a farci la partita di bocce.”

Fantozzi non aveva osato dirlo al conte Mughini, ma non aveva mai preso una boccia in mano in vita sua. Quando venne il suo turno si fece un grande silenzio nella valle, le tribune si riempirono di spettatori. “Venga adagio qui sul pallino!” gli ordinò il conte. Fantozzi giocò così debolmente che la boccia fece solo due giri e si fermò a dieci centimetri dalla linea di partenza.

Fantozzi era nervoso e gli sudavano le mani. “Cosa fa, dorme?” gli urlò il conte facendolo sobbalzare. “Tocca a lei, sa, giochi le sue bocce!” Questa volta Fantozzi giocò con grande violenza e colpì netto una tibia di un giocatore, che lasciò la partita ululando. Per farsi coraggio, tracannò una bicchierata di vino che lo travolse, e partì. Veniva giù dalle colline in un silenzio orrendo. Quando fu a un chilometro dal campo inciampò in un arbusto, e fece un volo di dodici metri in un cespuglio spinato. Si distrusse completamente l'abito della domenica (era una pesantissima “grisaglia” che nei suoi piani gli doveva durare quindici anni). Lacero e sanguinante si alzò, il vino stava facendo il suo effetto. Entrò ansimando e con la vista annebbiata in campo e da quattro metri sparò una cannonata terrificante: la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un bicchiere di vino ristoratore.

Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce all'uomo degli ultimi centovent'anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c'erano moltissimi impiegati ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti. Ora si trova nel canile municipale di Montezemolo in attesa di processo. I molossi napoletani lo guardano con disprezzo.


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