— Cazzo! — mi limitai a dire. Lavorare nei quartieri dormitorio era un tormento.

— Già — concordò Larisa. Non aveva nessuna stoffa come operativo… perciò forse stava al centralino. Ma era una intelligente. — Anton, fiondati a Perovo. I nostri si sono concentrati tutti lì, seguono le tracce. E c'è dell'altro. Laggiù hanno rilevato un Guardiano del Giorno.

Non ci capivo più niente: possibile che le Forze delle Tenebre fossero già al corrente di tutto? E non vedessero l'ora che si scatenasse l'inferno? Non era un caso che mi avessero fermato…

Sciocchezze. Una catastrofe a Mosca non era nell'interesse delle Forze delle Tenebre. Per la verità, nemmeno si sarebbero presi la briga di fermare il vortice: era contro la loro natura.

Così evitai d'infilarmi nella metropolitana. Presi un'auto, il che avrebbe dovuto darmi un certo margine di vantaggio, anche se piccolo. Sedetti accanto al conducente, un intellettuale dal viso smunto e dal naso con la gobba, sui quaranta. La macchina era nuovissima e il conducente dava l'impressione di uno più che benestante. Era persino strano che arrotondasse dando passaggi.

… Perovo. Un quartiere sterminato. Folle di persone. La Luce e le Tenebre, tutto s'intrecciava in un unico groviglio. Una fila di locali che proiettavano aloni luminosi e oscuri da tutti i lati. Lavorare quaggiù era come cercare un granello di sabbia sul pavimento di una discoteca sovraffollata, sotto le luci stroboscopiche…

Vantaggi pochi per me, o meglio nessuno. Ma avevano ordinato di andare e bisognava andare. Forse mi avrebbero chiesto di eseguire un'identificazione.

— Chissà perché ero convinto che avremmo avuto fortuna — mormorai, guardando la strada lastricata. Superammo Losinyj ostrov, l'"Isola degli alci", anche questo un luogo poco gradevole, dove avvenivano i sabba delle Forze delle Tenebre. E non sempre nell'osservanza dei diritti degli umani. Per cinque notti l'anno eravamo tenuti a tollerare tutto.

— Anch'io lo credevo… — bisbigliò Ol'ga.

— Come faccio a competere con gli operativi? — Scossi la testa.

Il conducente mi guardò di sottecchi. Il tragitto doveva essergli andato a genio. Non dovetti trattare sul prezzo. Ma un essere umano che parla da solo fa sempre pensare a qualcosa di insano.

— Ho cannato una cosa… — comunicai con un sospiro al conducente. — O meglio: l'ho eseguita male. Credevo di concludere oggi il mio incarico e invece si sono arrangiati senza di me.

— E perché ha tanta fretta? — s'incuriosì lui. Non sembrava un tipo particolarmente loquace, ma le mie parole l'avevano interessato.

— Mi hanno ordinato di andare — spiegai.

Interessante: chissà per chi mi aveva preso…

— E di che si occupa?

— Sono un programmatore. — Era una risposta onesta, dopotutto.

— Strepitoso — osservò il conducente. Chissà che ci trovava di strepitoso… — E le basta per vivere?

La domanda era retorica, e lo dimostrava il fatto che non avevo preso il metrò. Ma comunque risposi: — Perfettamente.

— Non glielo chiedo tanto per dire — fece il conducente. — Il mio gestore del server sta per lasciare il lavoro…

«Il mio…» Però!

— Personalmente lo vedo come un segno del destino. Do un passaggio a uno che si rivela essere un programmatore. Mi pare che lei sia predestinato. — Scoppiò a ridere, come per attenuare quelle affermazioni troppo perentorie. — Lavora con le reti locali?

— Sì.

— Ho una rete a cui sono collegate una cinquantina di macchine. Bisogna tenerla in ordine. Paghiamo bene.

Senza volere accennai un sorriso. Un bell'affare. Una rete locale. Uno stipendio niente male. E nessuno che pretenda che tu dia la caccia di notte ai vampiri, che beva il sangue e fiuti le tracce nelle strade gelate…

— Le lascio il mio biglietto da visita? — L'uomo infilò la mano nella tasca della giacca. — Pensi un po'…

— No, grazie. Purtroppo non sono io a decidere se posso lasciare il mio lavoro.

— È forse del KGB? — chiese il conducente, adombrandosi.

— No, di un'organizzazione più seria — risposi io. — Di gran lunga più seria. Ma simile.

— Hmm, già… — L'uomo tacque. — Peccato. Avevo già pensato che fosse un segno del cielo. Tu credi nel destino?

Al "tu" era passato con leggerezza e disinvoltura. Questo mi piacque.

— No.

— Perché? — si stupì sinceramente il conducente, come se avesse sempre avuto a che fare con fatalisti.

— Il destino non esiste. È dimostrato.

— Da chi?

— Da noi al lavoro.

Scoppiò a ridere.

— Grande! Allora vuol dire che non era destino! Dove devo lasciarti?

Eravamo già sullo Zelënyj Prospekt.

Mi misi a scrutare intorno, passando dallo stadio della realtà ordinaria a quello del Crepuscolo. Non riuscivo a distinguere nulla, i miei poteri erano insufficienti. Ma percepii. Attraverso una nebbiolina grigia baluginò un mucchio di lucine fioche. Come se tutto l'ufficio si fosse radunato lì…

— Eccoli…

Ora, trovandomi nella realtà ordinaria, non potevo scorgere i colleghi. Calpestavo la grigia neve di città in direzione del giardino tra i caseggiati e il viale sommerso da montagne di neve. Rari alberelli gelati, sequenze di orme che parevano quelle di ragazzini che avessero ruzzolato sulla neve o di ubriachi in cerca di una scorciatoia.

— Fa' un segno con la mano, ti hanno visto — mi suggerì Ol'ga.

Riflettei un po' e seguii il suo consiglio. Pensassero pure che sapevo benissimo passare con la vista da uno stadio di realtà a un altro.

Dopo essermi guardato intorno soprattutto per rispettare la procedura, creai il Crepuscolo e vi entrai.

C'era l'intero ufficio al completo. Tutta la sezione di Mosca.

Al centro stava Boris Ignat'evič. Vestito leggero, con un berrettino di pelo, ma chissà perché con la sciarpa. Lo vidi scendere dalla sua BMW, marcato stretto dalle guardie del corpo.

Accanto a lui c'erano gli operativi. Igor' e Garik: due perfetti guerrieri. Musi di pietra, spalle squadrate, facce ottuse e impenetrabili. Si capiva subito: avevano alle spalle otto classi, l'istituto e le squadre speciali di polizia. Nel caso di Igor' era vero alla lettera. Garik aveva invece due lauree. Malgrado la somiglianza esteriore e il comportamento pressoché identico nella sostanza, differivano decisamente. Il'ja sembrava un intellettuale raffinato, ma era difficile che qualcuno si lasciasse ingannare dagli occhiali dalla montatura sottile, dalla fronte alta e dallo sguardo innocente. Semën era un tipo esaltato: basso, tarchiato, con lo sguardo scaltro, indossava una logora giacca di nylon. Un provinciale giunto nella capitale. Per di più negli anni Sessanta, da uno dei tanti colcos modello. Erano agli antipodi. In compenso ciò che li accomunava era una splendida abbronzatura e un'espressione mesta del viso. Erano stati strappati dallo Sri Lanka nel bel mezzo delle ferie e non sembravano affatto godersela nella Mosca invernale. Ignat, Danila e Farid non c'erano, anche se potevo ancora sentire le loro tracce fresche. In compenso dietro le spalle del Capo stavano, senza mimetizzarsi affatto, ma quasi indistinguibili a una prima occhiata, i mutantropi Orso e Tigrotto. Quando li notai, mi sentii a disagio. Non erano dei semplici guerrieri. Erano dei grandissimi guerrieri. Non li convocavano per cose da poco.

E di specialisti l'ufficio ne aveva parecchi.

Nella sezione analitica ce n'erano cinque. Nel gruppo scientifico erano tutti specialisti, salvo Julja che però aveva solo tredici anni. Nell'archivio non ce n'erano e non se ne sentiva il bisogno.

— Salve! — dissi.

Uno accennò un saluto, qualcun altro sorrise. Ma ora erano altre le mie preoccupazioni. Boris Ignat'evič mi ordinò con un gesto di avvicinarmi, dopodiché proseguì il discorso che aveva evidentemente interrotto: — … non è nel loro interesse. E questo ci rallegra. Non ci daranno nessun aiuto… e va bene, è magnifico…

Era chiaro. Parlavano dei Guardiani del Giorno.


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