Arthur C. Clarke
Le fontane del Paradiso
Nota introduttiva
* Dal Paradiso a Taprobane ci sono quaranta leghe. Là si può udire il suono delle Fontane del Paradiso.
Lo scrittore di romanzi storici ha una particolare responsabilità nei confronti dei suoi lettori, specialmente se parla di epoche e posti poco familiari. Non dovrebbe distorcere fatti o avvenimenti, quando essi siano conosciuti; e quando li inventa, com'è spesso costretto a fare, ha il dovere di precisare la linea di demarcazione fra immaginazione e realtà.
Lo scrittore di fantascienza ha la stessa responsabilità elevata al quadrato. Spero che queste note serviranno ad assolvere i miei obblighi, e ad aumentare il divertimento dei lettori.
Il paese di Taprobane non ha riscontro esatto nella realtà, ma coincide al novanta per cento — per così dire — con l'isola di Ceylon, che oggi si chiama ufficialmente Sri Lanka.
Per ragioni narrative, d'altra parte, ho dovuto fare qualche piccola modifica alla stessa geografia di Ceylon. Ho spostato l'isola ottocento chilometri più a sud, in modo che si trovi sull'equatore, dove si trovava venti milioni di anni fa e dove potrebbe, un giorno, trovarsi di nuovo. Al momento sta fra i sei e i dieci gradi a nord dell'equatore.
Inoltre ho raddoppiato l'altezza della Montagna Sacra e l'ho portata più vicino a Yakkagala. Entrambi i posti esistono, molto simili a come li ho descritti.
Sri Pada, ovvero la Cima d'Adamo, è una stupefacente montagna a forma di cono, sacra ai buddisti, ai musulmani, agli indù e ai cristiani, sulla cui cima si trova un piccolo tempio. Nel tempio c'è una lastra di pietra con una depressione lunga due metri; comunque si crede che sia l'impronta del piede del Buddha.
Ogni anno, da molti secoli, migliaia di pellegrini compiono la salita fino alla cima alta 2240 metri. La salita non è più pericolosa, perché esistono due scalinate (che certo devono essere le più lunghe del mondo) che conducono fino alla cima. Una volta vi sono salito anch'io, e per parecchi giorni le mie gambe sono rimaste paralizzate. Ma ne valeva la pena, perché ho avuto la fortuna di vedere il magnifico, stupefacente spettacolo dell'ombra della montagna all'alba: un cono perfettamente simmetrico visibile solo per i primi minuti dopo l'alba, che si estende quasi sino all'orizzonte al di sopra delle nubi molto più basse.
In seguito ho esplorato la montagna, con uno sforzo notevolmente inferiore, su un elicottero della Sri Lanka Air Force, e sono giunto abbastanza vicino al tempio per osservare le espressioni rassegnate sulle facce dei monaci, ormai abituati a queste intrusioni rumorose.
La fortezza di Yakkagala in realtà si chiama Sigiriya (o Sigiri, «La Montagna del Leone»): una realtà talmente sorprendente che non ho avuto bisogno di cambiare niente. Le libertà che mi sono preso sono unicamente di ordine cronologico, perché il palazzo sulla cima della montagna (secondo la Cronaca di Ceylon, il «Culavamsa») è stato costruito sotto il regno del re parricida Kasyapa I (478-495 d.C). Però è poco probabile che un'impresa di tali dimensioni sia stata portata a compimento in soli diciotto anni, da un usurpatore che poteva aspettarsi da un momento all'altro di essere sfidato, e la vera storia di Sigiriya potrebbe risalire a molti secoli prima.
Il carattere, le idee e l'effettivo destino di Kasyapa hanno scatenato molte ipotesi, tornate d'attualità negli ultimi anni in seguito alla pubblicazione di «The Story of Sigiri» (La storia di Sigiri, Colombo, 1972) del professor Senerat Paranavitana. Gli sono inoltre grato per il suo studio monumentale, in due volumi, delle iscrizioni sulla Parete a Specchio, «Sigiri Graffiti» (Oxford, 1956). Alcuni dei versi che cito sono veri; altri sono parzialmente inventati.
Gli affreschi che costituiscono là maggiore gloria di Sigiriya sono perfettamente riprodotti nel volume "Ceylon: Paintings from Temple, Shrine and Rock" (Ceylon: dipinti del tempio, del reliquiario e della montagna, New York, 1957). La quinta tavola mostra il dipinto più interessante, quello che, purtroppo, è stato distrutto negli anni Sessanta da ignoti vandali. La schiava, chiaramente, sta "ascoltando" la scatoletta misteriosa che stringe nella destra; l'oggetto non è ancora stato identificato, visto che gli archeologi locali si rifiutano di prendere sul serio la mia ipotesi che si tratti di un'antica radio a transistor.
La leggenda di Sigiriya è stata ultimamente trasferita sullo schermo da Dimitri de Grunwald, nel film "The God King" (Il Re-Dio), con Leigh Lawson.
Quest'idea apparentemente pazzesca è stata proposta, per la prima volta, all'attenzione dell'Occidente in una lettera sul numero di "Science" dell'11 febbraio 1966, "È possibile agganciare il cielo coi satelliti", lettera firmata da John D. Isaacs, Hugh Bradner e George E. Backsus dello "Scripps Institute of Oceanography", e da Allyn C. Vine del "Wood's Hole Oceanographic Institute". Per quanto possa sembrare bizzarro che siano degli oceanografi a cullare un'idea del genere, la cosa non è sorprendente quando si considera che solo loro (dai giorni gloriosi dei palloni di sbarramento) studiano il problema di cavi a lunga distanza sottoposti a un peso enorme (tra parentesi, il nome del dottor Allyn Vine è oggi immortalato in quello di un famoso sommergibile da ricerca, "Alvin").
Solo più tardi si scoprì che l'idea era già stata avanzata, sei anni prima e su scala molto più ambiziosa, da un ingegnere di Leningrado, Y. N. Artsutanov. Artsutanov progettò una "funicolare celeste", per usare il suo nome suggestivo, capace di trasportare all'orbita sincrona nientemeno che 12.000 tonnellate al giorno. È sorprendente che un'idea così audace non abbia ricevuto l'accoglienza che merita. Personalmente l'ho vista menzionata una volta sola, nel bel volume d'illustrazione di Alexei Leonov e Sokolov "Le stelle ci attendono" (Mosca, 1967). Una tavola a colori mostra l'"elevatore spaziale" in funzione; la didascalia dice: " …Il satellite, per così dire, resterà immobile in u ncerto punto del cielo. Se abbassiamo un cavo dal satellite alla Terra, avremo pronta la strada. Dopo di che si potrà costruire un elevatore Terra-Sputnik-Terra che potrà ospitare sia materiali che passeggeri, e funzionerà senza la propulsione a razzo".
Il generale Leonov mi ha regalato una copia di quel volume alla Conferenza di Vienna del 1968 per gli Usi Pacifici dello Spazio, ma l'idea non mi ha colpito; a prescindere dal fatto che l'elevatore spaziale parte esattamente da Sri Lanka! Probabilmente ho ritenuto che il cosmonauta Leonov, noto umorista e magnifico diplomatico, stesse solo scherzando.
Indubbiamente l'elevatore spaziale è un'idea di cui oggi si avverte la necessità, com'è dimostrato dal fatto che nel giro di un decennio da quella famosa lettera pubblicata nel 1966 è stato reinventato almeno tre volte. Un progetto molto dettagliato, con parecchie idee nuove, è quello di Jerome Pearson della Wright-Peterson Air Force Base, pubblicato da "Acta Astronautica" nel numero di settembre-ottobre 1975 (La Torre Orbitale: una base di lancio per astronavi che utilizza l'energia di rotazione della Terra). Il dottor Pearson è rimasto stupefatto all'idea che fossero già stati fatti studi sull'argomento, non registrati dal suo computer; li ha scoperti leggendo la mia relazione alla "House of Representatives Space Committee" del luglio 1975.
Sei anni prima, A. R. Collar e J. W. Flower erano giunti praticamente alla stessa conclusione, in uno studio pubblicato dalla "Rivista della Società Interplanetaria Britannica". Stavano esaminando la possibilità di collocare un satellite di comunicazione molto al di sotto dell'altezza naturale di 36.000 chilometri, e non hanno discusso l'idea di abbassare il cavo sino alla superficie della Terra, ma si tratta solo di un'ovvia implicazione del loro progetto.