Se riusciva nel compito che stava per affrontare, sarebbe rimasto famoso nei secoli. Già il suo cervello, la sua forza e la sua volontà erano tesi al massimo; non aveva tempo per distrazioni sciocche. Eppure era rimasto affascinato dal lavoro di un ingegnere-architetto morto da duemila anni, figlio di una cultura del tutto estranea. E poi c'era il mistero di Kalidas: che scopo aveva la costruzione di Yakkagala? Forse quel re era un mostro, ma nella sua personalità c'era qualcosa che entrava in sintonia coi recessi segreti del cuore di Morgan.

Il sole si sarebbe levato entro venti minuti. Mancavano ancora due ore alla colazione con l'ambasciatore Rajasinghe. Il tempo era sufficiente, e poteva darsi che non gli si presentassero altre possibilità.

Morgan non era tipo da perdere tempo. In meno di un minuto infilò calzoni e maglione, ma ci volle parecchio di più per il minuzioso controllo delle calzature. Anche se da anni non compiva più scalate impegnative, portava sempre con sé un paio di scarponi robusti e leggeri. Con la sua professione, li aveva spesso trovati indispensabili. Aveva già chiuso la porta della stanza quando fu colpito da un pensiero improvviso. Per un attimo rimase, esitante, in corridoio; poi sorrise e scrollò le spalle. Male non poteva farne, e non si sapeva mai…

Tornato nella stanza, Morgan aprì la valigia e tirò fuori una scatoletta piatta, della forma e delle dimensioni di un calcolatore tascabile. Controllò che le batterie fossero cariche, provò il meccanismo di comando manuale, poi l'allacciò alla fibbia in acciaio della sua robusta cintura sintetica. Adesso era davvero pronto a entrare nel regno maledetto di Kalidas e ad affrontare i demoni che vi abitavano.

Il sole si alzò, scaldandogli dolcemente la schiena. Morgan superò l'apertura del bastione massiccio che formava la difesa più esterna della fortezza. Davanti a lui, solcate da uno stretto ponte di pietra, si stendevano le acque immobili del grande fossato che correva, perfettamente rettilineo, per mezzo chilometro su ogni lato. Un gruppetto di cigni si avvicinò speranzoso nuotando tra le ninfee, e si disperse arruffando le penne quando fu chiaro che lui non aveva cibo da offrire. Dall'altro lato del ponte arrivò a un secondo muro, più basso, e salì la stretta scalinata che lo attraversava. Si trovò dinanzi ai Giardini del Piacere, sopra i quali si stendeva la parete liscia della Montagna.

Le fontane disposte lungo l'asse dei giardini lasciavano ricadere e salire l'acqua all'unisono, in un ritmo languido, come se stessero respirando tutte assieme. In giro non c'erano altri esseri umani; Yakkagala era tutta sua. La città-fortezza non doveva essere stata più deserta nemmeno nei millesettecento anni in cui la foresta l'aveva invasa, fra la morte di Kalidas e la sua riscoperta a opera degli archeologi del diciannovesimo secolo.

Morgan oltrepassò la linea di fontane, e qualche spruzzo gli arrivò addosso. Si fermò ad ammirare il condotto di pietra riccamente scolpito, senza dubbio d'epoca, in cui defluiva l'acqua in eccesso. Si chiese come avessero fatto gli esperti d'idraulica di un tempo così lontano a sollevare l'acqua che alimentava le fontane, e quali differenze di pressione fossero in grado di creare. Quei getti potenti, verticali, dovevano essere parsi terribilmente stupefacenti ai primi spettatori.

E ora aveva davanti una scalinata di granito, dagli scalini così stretti che i suoi scarponi vi entravano a stento. Morgan si chiese se gli uomini che avevano costruito quel posto straordinario avessero piedi così piccoli. Oppure si trattava di un'astuzia dell'architetto per scoraggiare i visitatori animati da cattive intenzioni? Certo non sarebbe stato molto facile, per dei soldati, caricare su quella salita inclinata a sessanta gradi, su scalini che parevano costruiti a misura di nano.

Una piccola piattaforma, poi un'altra scalinata identica alla precedente, e Morgan si trovò in una galleria lunga, in leggera salita, scavata nella parte più bassa della Montagna. Adesso era a più di cinquanta metri al di sopra della pianura sottostante, ma la visuale era completamente bloccata da un muro ricoperto di gesso giallo e liscio. La Montagna sopra di lui sporgeva talmente in fuori che gli sembrava quasi di camminare in un tunnel. Era visibile solo una minuscola fetta di cielo.

Il gesso sulla parete sembrava nuovissimo e intatto. Era quasi impossibile credere che i muratori avessero abbandonato il lavoro duemila anni prima. Qui e là, però, la superficie tersa e liscia come uno specchio era sfregiata da messaggi incisi da visitatori che avevano cercato, come al solito, di ottenere l'immortalità. Pochissime iscrizioni appartenevano ad alfabeti che Morgan era in grado di riconoscere, e la data più recente che vide era il 1931; in seguito, presumibilmente, il Dipartimento di Archeologia era intervenuto a prevenire simili vandalismi. La maggior parte dei graffiti erano in taprobani, tracciati a lettere rotonde e fiorite. Morgan ricordava, dallo spettacolo della sera prima, che molte iscrizioni erano poemi, risalenti al secondo e terzo secolo. Dopo la morte di Kalidas, per un breve periodo Yakkagala era diventata un'attrazione turistica, grazie alla leggenda ancora viva del re maledetto.

A metà della galleria Morgan raggiunse la parte chiusa dell'ascensore che portava ai celebri affreschi, venti metri sopra di lui. Piegò la testa per vederli, ma erano nascosti dalla piattaforma panoramica per turisti che pendeva, come un nido d'uccelli, dalla sporgenza della Montagna. Alcuni turisti, gli aveva raccontato Rajasinghe, davano un'occhiata alla pazzesca posizione degli affreschi e decidevano che era meglio accontentarsi delle fotografie.

Adesso, per la prima volta, Morgan poteva apprezzare uno dei misteri maggiori di Yakkagala. Non si trattava di capire "come" fossero stati dipinti gli affreschi (per risolvere il problema era sufficiente un'impalcatura di bambù), ma "perché". Una volta finiti, nessuno avrebbe potuto ammirarli nella loro completezza: dalla galleria che correva sotto se ne vedeva solo una minima parte; e dalla base della Montagna sarebbero stati solo leggere macchie di colore, irriconoscibili. Forse, come aveva suggerito qualcuno, avevano solo un significato religioso o magico, come quei dipinti dell'età della pietra scoperti nelle profondità di caverne quasi inaccessibili.

Per gli affreschi bisognava attendere che arrivasse il guardiano ad aprire l'ascensore. C'erano moltissime altre cose da vedere: si trovava appena a un terzo del cammino che portava alla cima, e la galleria scavata nella parete della Montagna continuava a salire.

Il muro alto, coperto di gesso giallo, fu sostituito da un parapetto basso, e Morgan riuscì di nuovo a scorgere la campagna attorno. Sotto di lui si stendevano i Giardini del Piacere, e per la prima volta poté apprezzarne non solo le dimensioni notevolissime (Versailles era più grande?) ma anche l'ingegnosa topografia, e capire con quanta intelligenza fossero stati studiati il fossato e i bastioni che li proteggevano dalla foresta.

Nessuno sapeva quali alberi e arbusti e fiori crescessero lì ai tempi di Kalidas, ma la disposizione dei laghi artificiali, dei canali, dei sentieri e delle fontane era esattamente la stessa. Ammirando i getti d'acqua che danzavano sotto di lui, Morgan ricordò all'improvviso una frase udita durante lo spettacolo della sera precedente:

"Da Taprobane al Paradiso corrono quaranta leghe. Lì si può udire il suono delle fontane del paradiso."

Assaporò quella frase dentro di sé: le "fontane del paradiso". Kalidas aveva cercato di costruire, qui sulla terra, un giardino degno degli dèi, per poter sostenere la propria divinità? Se le cose stavano così, non c'era da meravigliarsi che i monaci lo avessero accusato di empietà e avessero maledetto la sua opera.

La lunga galleria, che occupava l'intera facciata ovest della Montagna, terminava in un'altra scalinata che saliva ripida, però questa volta gli scalini erano di dimensioni molto più generose. Il palazzo, comunque, era ancora irraggiungibile: la scalinata finiva su un'ampia spianata senza dubbio artificiale. Lì si trovava tutto quello che rimaneva del gigantesco mostro leonino che un tempo dominava l'intero paesaggio, e ispirava terrore ai cuori di tutti quelli che lo guardavano. Perché dalla faccia della montagna si protendevano le zampe di un animale gigantesco, acquattato; solo gli artigli erano alti la metà d'un uomo.


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