Bene, mi pare di aver capito. La Glumova, a quanto pare, è impegnata chissà dove. Forse a discutere con Lev Abalkin. A proposito, mi ha fissato un appuntamento per oggi alle 9.00. Probabilmente un trucco, ma se veramente mi tocca volare a questo appuntamento, ora è il momento migliore per telefonargli e sapere se, per caso, non ha cambiato idea. E, senza perder tempo, telefono ai «Pioppi».
Il cottage numero sei rispose subito, e vidi sullo schermo Maja Glumova.
— Ah, è lei… — disse con disgusto.
Non è possibile descrivere l’offesa, la delusione impresse sul suo viso. In quelle ventiquattro ore aveva subìto un vero e proprio crollo: le guance si erano incavate, aveva delle profonde occhiaie, gli occhi tristi e febbricitanti erano spalancati, le labbra screpolate. E solo qualche secondo dopo, quando si allontanò lentamente dallo schermo, mi accorsi che i suoi magnifici capelli erano pettinati con cura e non senza civetteria e che portava, sull’austero, elegante abito grigio con il colletto chiuso, proprio quella collana di ambra.
— Sì, sono io… — disse distratto il giornalista Kammerer. — Buon giorno. Veramente… è in casa Lev?
— No, — disse.
— Il fatto è che mi ha fissato un appuntamento… Volevo…
— Qui? — chiese lei vivacemente, avvicinandosi di nuovo allo schermo, — Quando?
— Alle dieci. Volevo semplicemente sapere… Ma lui, pare che non ci sia…
— Ma le ha dato un appuntamento preciso? Come le ha detto? — chiese lei infantilmente, guardandomi avidamente.
— Come ha detto? — ripeté lentamente il giornalista Kammerer. Anzi non il giornalista Kammerer, ma io. — Allora, Maja Tojvovna. Non stiamo a ingannarci. Probabilmente, non verrà.
Ora lei mi guardava come se non credesse ai suoi occhi.
— Come sarebbe?… Come fa a saperlo?
— Mi aspetti, — dissi. — Le racconterò tutto. Fra qualche minuto sarò lì.
— Che cosa gli è successo? — gridò con voce stridula e terribile.
— È sano e salvo. Non si preoccupi. Aspetti, ora arrivo…
Due minuti per vestirmi. Tre minuti fino alla più vicina cabina di trasporto-zero. Accidenti, c’era la fila davanti alla cabina… «Amici, vi prego, fatemi passare, è una cosa molto importante… Grazie, grazie mille!…». Un minuto per cercate il numero di codice. Che razza di numeri di codice hanno in provincia!… Cinque secondi per comporre il numero di codice. Esco dalla cabina e mi trovo nel vestibolo vuoto del club della stazione climatica. Ancora un minuto, sono sull’ampia veranda e mi guardo intorno. Aha, è di là che devo andare. Mi butto in avanti fra i cespugli di sorbo selvatico e di ortica. Speriamo di non incontrare il dottor Goannek…
Lei mi aspettava in anticamera; sedeva sul tavolino basso con l’orsacchiotto, tenendo sulle ginocchia il videofono. Entrando, gettai involontariamente un’occhiata alla porta socchiusa del soggiorno, e lei subito si affrettò a dire:
— Parleremo qui.
— Come vuole, — le risposi.
A bella posta, senza fretta, passai in rassegna il soggiorno, la cucina e la camera da letto. Dappertutto era pulito e ordinato e, ovviamente, non c’era nessuno. Con la coda dell’occhio, vidi che lei sedeva immobile, con le mani appoggiate al videofono, e guardava fisso davanti a sé.
— Chi cercava? — chiese freddamente.
— Non so, — confessai onestamente. — Semplicemente, visto che la nostra sarà una conversazione riservata, volevo assicurarmi che siamo soli.
— Chi è lei? — domandò. — Ma non mi racconti bugie!
Le esposi la storiella numero due. Spiegai che si trattava di un mistero della personalità e aggiunsi che non mi scusavo per le menzogne che le avevo raccontato, perché avevo solo cercato di fare il mio lavoro, senza causarle turbamenti inutili.
— Ed ora, invece, ha deciso di non stare più a far cerimonie, — fece lei.
— E che cosa dovrei fare?
Lei non rispose.
— Lei sta qui e aspetta, — dissi. — Ma è chiaro che lui non verrà. Lui la mena per il naso. Sta menando tutti noi per il naso, e non si vede la fine di tutto questo. E intanto il tempo passa.
— Perché lei pensa che non verrà qui?
— Perché si nasconde, — risposi. — Perché mente a tutti coloro con cui gli capita di parlare.
— Perché lei ha telefonato qui?
— Perché non riesco a trovarlo! — dissi imbestialito. — Mi tocca cogliere ogni possibilità, anche la più idiota…
— Che cosa ha fatto?
— Non so cosa abbia fatto. Forse niente. Lo sto cercando non perché abbia fatto qualcosa. Lo sto cercando perché è l’unico testimone di una grande catastrofe. E se non riusciamo a trovarlo, non sapremo mai che cosa sia successo lì…
— Dove lì?
— Non ha importanza, — dissi impaziente. — Lì dove lavorava. Non sulla Terra, sul pianeta Sarakš.
Dalla sua faccia si capiva che sentiva nominare per la prima volta il pianeta Sarakš.
— Perché si nasconde? — chiese lei piano.
— Non lo sappiamo. È ai limiti del collasso psichico. Forse, è malato. Probabilmente ha qualcosa in mente, una specie di idea fissa.
— Malato… — disse lei, scuotendo piano la testa. — Forse sì. E forse no… Che cosa vuole da me?
— L’ha visto di nuovo?
— No, — rispose. — Aveva promesso di telefonarmi, ma non lo ha fatto.
— Perché lo aspetta qui?
— E dove dovrei aspettarlo?
Nella sua voce c’era tanta amarezza che distolsi gli occhi, e per un po’ tacqui. Poi chiesi:
— E dove avrebbe dovuto telefonarle? In ufficio?
— Forse…, non so. La prima volta mi ha telefonato in ufficio.
— Le ha telefonato al museo e le ha detto che sarebbe venuto a trovarla?
— No. Mi ha invitato subito qui. Ho preso il bioplano e sono venuta.
— Maja Tojvovna, — dissi. — Mi interessano tutti i particolari del vostro incontro. Lei gli avrà raccontato di sé, del suo lavoro. Lui le avrà raccontato del suo… Cerchi di ricordare come è andata.
Lei scosse la testa.
— No. Non abbiamo parlato affatto di questo. Certo, è veramente strano… Non ci vedevamo da tanti anni… Ci ho pensato dopo, quando ero già a casa, che non avevo saputo niente di lui… Eppure io gli ho chiesto: «Dove sei stato, cosa hai fatto?…», ma lui tirava via, e gridava che erano tutte sciocchezze, stupidaggini…
— Allora, le ha fatto lui delle domande?
— Ma no! Non lo interessava affatto… Che cosa faccio, come vivo… se sono sola o se ho qualcuno… che lavoro faccio… Era proprio come un ragazzino… Non ne voglio parlare.
— Maja Tojvovna, non deve parlare di cose di cui non desidera parlare…
— Non voglio parlare di niente!
Mi alzai, andai in cucina e le portai un bicchier d’acqua. Bevve avidamente fino in fondo, versandosi l’acqua sul vestito grigio.
— Non riguarda nessuno, — disse, restituendomi il bicchiere.
— Non parli di quello che non riguarda nessuno, — dissi, sedendomi. — Che cosa le ha domandato?
— Gliel’ho già detto: non mi ha domandato niente! Ha raccontato, ricordato, disegnato, litigato… come un ragazzino! A quanto pare, ricorda tutto! Quasi ogni giorno! Dove era lui, dove ero io, che cosa ha detto Rex, come guardava Wolf… Io non ricordavo niente, e lui mi ha sgridato e mi ha costretta a ricordare, e ho ricordato… E come è stato contento, quando mi sono ricordata qualcosa che nemmeno lui ricordava!
Tacque.
— Sempre sull’infanzia? — chiesi, in attesa.
— Ma certo! Gliel’ho già detto, non riguarda nessuno, solo me e lui!.. Era come pazzo… Non ce la facevo più, mi si chiudevano gli occhi, e lui mi svegliava e mi gridava all’orecchio: «E quella volta chi è caduto dall’altalena?». E se me lo ricordavo, mi prendeva per la vita, correva con me per la casa e gridava: «Giusto, è andata proprio così, giusto!».
— E non le ha chiesto dell’insegnante, dei compagni di scuola?
— Ora le spiego: non ha fatto domande su niente e su nessuno Lo vuoi capire? Lui ha raccontato, ricordato, e pretendeva che anch’io ricordassi…
— Sì, capisco, capisco, dissi. — E che cosa si proponeva di fare, secondo lei?