Lev Abalkin giaceva sulla schiena nel mezzo della stanza, e Sua Eccellenza, enorme, curvo, con la pistola nella mano che penzolava, gli si avvicinava cautamente a piccoli passi, e dall’altro lato, reggendosi al bordo del tavolo con entrambe le mani, si avvicinava ad Abalkin Maja Glumova.

La Glumova aveva un viso immobile, del tutto indifferente, ma gli occhi erano storti verso la radice del naso in modo terribile e innaturale.

La calvizie color zafferano e la guancia leggermente floscia di Sua Eccellenza erano coperte di gocce di sudore.

C’era un odore di polvere da sparo acuto, acido, insolito.

E c’era silenzio.

Lev Abalkin era ancora vivo. Le dita della sua mano destra senza forza e con ostinazione graffiavano il pavimento, come se cercassero di raggiungere il dischetto grigio del detonatore che si trovava a un centimetro da loro. Con un segno che sembrava una «Ž» stilizzata o il geroglifico giapponese “sandzju”.

Mi avvicinai ad Abalkin e mi accoccolai accanto a lui. (Sua Eccellenza mi gridò un avvertimento.) Abalkin con occhi vitrei fissava il soffitto. Il viso era coperto come prima di macchie grige, la bocca era sanguinante. Lo toccai sulla spalla. La bocca sanguinante si mosse e lui disse:

— Accanto all’uscio gli animali stavano…

— Lev, — chiamai.

— Accanto all’uscio gli animali stavano, — ripeté cocciuto. — Accanto all’uscio…

A quel punto, Maja Tojvovna Glumova cominciò a urlare.

Arkadij e Boris Strugackij

TENTATIVO DI FUGA

TENTATIVO DI FUGA

I

— Oggi sarà proprio una bella giornata! — disse Vadim ad alta voce. Aveva fatto rientrare una parete della villetta e guardava il giardino, dandosi grandi manate sulle spalle nude. Di notte era piovuto, ed ora l’erba era bagnata, i cespugli erano bagnati, il tetto del cottage vicino era bagnato. Il cielo era grigio e sul sentiero luccicavano le pozze d’acqua. Vadim si rimboccò i calzoncini, saltò nell’erba e si mise a correre giù per il sentiero. Inspirando profondamente, rumorosamente, l’aria umida del mattino, si lasciò alle spalle le sedie a sdraio bagnate, il mucchio delle casse e dei fagotti umidi, la staccionata del vicino, di là dalla quale un Colibrì mezzo smontato mostrava le sue viscere e, addentratosi fra i macchioni e i pini grondanti, si tuffò nel laghetto. Uscito sulla riva opposta, coperta di canne palustri, corse subito indietro, accaldato e soddisfatto, con andatura sempre più rapida, oltrepassando a salti le grandi pozzanghere immobili e spaventando piccoli ranocchi grigi, per andare poi a fermarsi nella radura davanti al cottage di Anton, dove si trovava la navicella.

La navicella era molto giovane: non aveva neppure due anni. Le membrane nere che l’avvolgevano erano perfettamente asciutte e vibravano appena. La cuspide era molto inclinata ed era orientata verso il punto preciso del cielo grigio in cui le nuvole nascondevano il sole: come sempre la navicella stava accumulando energia. Intorno, l’erba alta, appassita e ingiallita, era coperta di brina. L’apparecchio non era altro che una discreta astronave turistica. Un incrociatore spaziale in una notte avrebbe fatto gelare tutto il bosco in un raggio di dieci chilometri.

Scivolando in curva, Vadim fece di corsa un giro della navicella e si diresse verso casa. Mentre, gemendo di piacere, si strofinava con un asciugamano di spugna, dalla villetta di fronte uscì il vicino, lo zio Saša, con in mano un bisturi. Vadim gli fece un cenno di saluto con l’asciugamano. Il vicino aveva centocinquarita anni, e tutto il santo giorno si dava da fare intorno al suo elicottero, ma invano: il Colibrì non volava volentieri. Lo zio Saša guardò pensieroso Vadim.

— Non hai dei bioelementi da prestarmi? — chiese.

— Perché, i suoi si sono bruciati?

— Non lo so. Reagiscono in modo strano.

— Provi a mettersi in contatto con Anton, zio Saša, — propose Vadim. — Lui ora è in città. Se ne faccia portare un paio.

Il vicino si avvicinò all’elicottero e lo colpì sul naso con il bisturi.

— Ma che mi combini, scemotto? — gli disse, arrabbiato.

Vadim cominciò a vestirsi:

— Bioelementi… — brontolava lo zio Saša, cacciando il bisturi nelle viscere del Colibrì. — Chi ne ha bisogno? Meccanismi vivi… Meccanismi semivivi… Meccanismi quasi morti… Niente montaggio, niente elettronica… solo nervi! Scusate, ma non sono un chirurgo. — L’elicottero fece un movimento brusco. — Piano tu, animale! Stai fermo! — Tirò fuori il bisturi e si girò verso Vadim.

— Alla fin fine non si tratta di un essere umano! — annunciò. — Una povera macchina difettosa è come un dente sempre malato! Forse, sono vecchio stile? Ma mi fa pena, capisci?

— Anche a me, — borbottò Vadim, infilandosi la camicia.

— Davvero?

— Dico, potrei forse aiutarla?

Lo zio Saša per qualche minuto guardò alternativamente l’elicottero ed il bisturi.

— No, — disse deciso. — Non voglio arrendermi alle circostanze. Riuscirò a farlo volare.

Vadim sedette a far colazione. Accese lo stereovisore e si mise davanti Nuove tecniche di caccia ai Tachorg. Era un vecchio libro di carta, letto e riletto ancora dal nonno di Vadim. Sulla copertina era riprodotto il paesaggio del pianeta-parco naturale Pandora con due mostri in primo piano.

Vadim mangiava, sfogliando il libro e gettando occhiate compiaciute alla bella annunciatrice che raccontava qualcosa sulle battaglie dei critici a proposito dell’emozionalismo. L’annunciatrice era nuova e piaceva a Vadim ormai da una settimana intera.

— Emozionalismo! — disse Vadim con un sospiro e diede un morso al panino con formaggio di capra. — Ragazza mia, questa parola è abominevole, persino foneticamente. Vieni piuttosto con noi! E l’emozionalismo lascialo sulla Terra. Con ogni probabilità sarà morto prima del nostro ritorno. Puoi contarci.

— L’emozionalismo è un orientamento molto promettente, — continuava imperturbabile l’annunciatrice. — Infatti solo ora si aprono vere prospettive di sostanziale diminuzione dell’entropia dell’informazione emotiva nell’arte. Infatti solo ora…

Vadim si alzò e con il panino in mano si avvicinò alla parete spalancata.

— Zio Saša, — chiamò, — non le dice niente la parola “emozionalismo”?

Il vicino, con le braccia dietro la schiena, stava davanti all’elicottero smontato. Il Colibrì stormiva come un albero al vento.

— Cosa? — disse lo zio Saša, senza voltarsi.

— La parola “emozionalismo”, — ripeté Vadim. — Mi rammenta lo scampanìo che accompagna i funerali, si vede l’edificio elegante del crematorio, si sente odore di fiori secchi.

— Sei sempre stato un ragazzo pieno di tatto, Vadim, — osservò il vecchio con un sospiro, — ma la parola è veramente orribile.

— Sì, proprio, — ribadì Vadim, masticando. — Sono contento che anche lei la pensi così… Senta un po’, ma dov’è il suo bisturi?

— Mi è caduto là dentro, — disse lo zio Saša.

Per un po’ di tempo Vadim seguitò a guardare l’elicottero che ondeggiava penosamente.

— Sa che cosa ha fatto, zio Saša? — disse. — Con il bisturi ha azionato il sistema digestivo. Ora mi metto in contatto con Anton perché gliene porti un altro.

— È questo?

Vadim, abbozzando un sorriso di rammarico, scosse una mano.

— Guardi, — disse, mostrando quel che restava del panino. — Stia attento a quel che faccio! — Si cacciò il panino in bocca, lo masticò e l’inghiottì.

— E allora? — chiese con interesse lo zio Saša.

— Questo è quello che sta succedendo al suo strumento.

Lo zio Saša guardò l’elicottero. L’elicottero smise di vibrare.


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