— Saul, le ho già detto che mi sono staccato.
— Ma che cosa vuol dire mi sono staccato? Adesso non pensa affatto al lavoro?
— Al contrario. Ci penso sempre. Penso sempre al lavoro che mi occupa al momento. Ora sono supermagazziniere e secondo pilota, nel caso che Anton all’improvviso rimanga disidratato. Ma mi pare che questo già… Allora, adesso ho proprio voglia di guidare un po’ la navicella.
— Farà ancora in tempo a guidarla! E poi la pregavo di raccontarmi non i particolari del suo lavoro, ma gli aspetti esteriori, per esempio… cosa fa quando arriva al lavoro. Una giornata di lavoro.
— Bene. Una giornata lavorativa. Mi sdraio sul calcolatore e penso.
— Sì… Un momento. Sul calcolatore? Ah sì, capisco. Fa il linguista e si sdraia sul… E poi?
— Penso per un’ora. Penso per una seconda. Penso per una terza…
— E alla fine?
— Penso per cinque ore, non ne viene fuori niente. Allora mi alzo dal calcolatore e me ne vado.
— Dove?
— Allo zoo, per esempio.
— Allo zoo? Perché allo zoo?
— Così. Mi piacciono gli animali.
— E il lavoro?
— Il lavoro… Torno il giorno dopo e di nuovo comincio a pensare.
— E di nuovo pensa per cinque ore e poi se ne va allo zoo?
— No. Di solito la notte mi vengono delle idee, e il giorno dopo ci penso solo un po’ su. E poi si brucia il calcolatore.
— Così. E va allo zoo?
— Che c’entra ora lo zoo? Ci mettiamo a riparare il calcolatore. Lo ripariamo fino al mattino.
— E poi?
— E poi finisce il giorno feriale e comincia il giorno festivo. Tutti hanno gli occhi fuori delle orbite e una sola cosa in testa: ecco ora si rompe di nuovo e si comincia daccapo.
— Beh, va bene. Questi sono i giorni feriali. Però non si può mica sempre lavorare…
— No, non si può, — disse Vadim con rammarico. — Io, per esempio, non posso. Alla fine ti senti esaurito, e ti tocca divertirti.
— Come?
— Come capita. Io, per esempio, vado in barca a vela sul ghiaccio. Le piace andare in barca a vela sul ghiaccio?
— Eh… Non mi è mai capitato.
— Com’è possibile, Saul! Le farò assolutamente fare un giro. Qual è il suo indice di salute?
— Indice di salute? Sono assolutamente sano. E su che cosa lavora ora?
— Sulle aggregazioni di strutture isolate.
— E a che cosa serve?
— Cosa vuol dire a che cosa serve?
— Beh, chi è che ne ricaverà profitto?
— Tutti quelli a cui interessa. Ecco, ora progettano un radiotrasmettitore universale. Un radiotrasmettitore universale deve saper aggregare le strutture isolate.
— Dica, Vadim, ma qui sulla navicella si può ascoltare musica?
— Certamente. Che cosa le piacerebbe? Vuole I trilli di Scheer? Con questa musica guidare la navicella è una bellezza.
— E Bach?
— Oh, Bach! Mi pare che abbiamo anche Bach. Sa, Saul, deve essere molto piacevole ascoltare musica insieme a lei.
— Perché?
— Non so. È sempre piacevole ascoltare la musica con qualcuno che se ne intende. Le piace Mendelssohn?
— Conosce Mendelssohn?
— Saul! Mendelssohn è il migliore dei vecchi! Spero che le piaccia Mendelssohn. Per la verità la navicella non è il posto migliore per ascoltarlo. Non le pare?
— Probabile… Io di solito ascolto Mendelssohn stando nel mio comodo studio…
Gli si è sciolta la lingua finalmente, pensò Anton. Guardò l’orologio. La navicella entrava nella zona di decollo sotto il Polo nord. Sullo schermo, nella profondità viola affioravano i puntini scuri delle astronavi, che aspettavano il via. Anton gridò verso la porta:
— Scusate se vi interrompo. Presto decolleremo. Dimka, mostra a Saul come si utilizza la camera di azzeramento della forza di inerzia.
Anton inoltrò alla stazione di controllo la richiesta del programma di volo e trenta minuti dopo, durante i quali la navicella nuotò nella stratosfera insieme a una ventina di altre astronavi grandi e piccole, ricevette il programma con sette varianti per il viaggio di ritorno e il permesso di partenza per lo spazio. Allora chiese ai passeggeri di chiudersi nelle cabine, andò in cabina anche lui, inserì il programma di passaggio e diede alla navicella il comando di via.
Come sempre, Anton ebbe un forte senso di nausea. Un’onda infuocata gli attraversò il corpo, la faccia e la schiena si ricoprirono di sudore freddo. Lo sguardo imbambolato, seguiva la lancetta rossa che con violenti strappi segnalava sul quadrante i cambiamenti di curvatura dello spazio. Duecento riman… quattrocento… ottocento… mille e seicento riman al secondo… Lo spazio si avvolgeva sempre più stretto intorno alla navicella. Il nitido cono nero della navicella diventava sempre più fluttuante, si dissolveva lentamente e all’improvviso scompariva del tutto, e al suo posto divampava sul sole un’enorme bolla di aria solida. La temperatura per un raggio di cento chilometri si abbassava bruscamente di cinque-dieci gradi… Tremila riman. La lancetta rossa si fermò. La deritrinitazione ipsion finì e la navicella passò sul subspazio. Dal punto di vista di un osservatore terrestre adesso era “distesa” lungo tutto quel tratto di centocinquanta parsec che separavano il Sole da EN 7031. Ora bisognava tornare nello spazio normale.
Quando si esce dal subspazio c’è sempre il pericolo di trovarsi troppo vicino a una massa gravitazionale e, forse, persino al suo interno. Per la verità, questo pericolo è puramente teorico. Le probabilità sono di gran lunga inferiori a quelle che ha un paraca. dutista di andare a finire proprio nella canna fumaria dell’Ermitage, buttandosi su Leningrado dalla stratosfera. In ogni caso, né l’una né l’altra eventualità si sono mai verificate. La nave spaziale di Anton si inserì felicemente nello spazio normale alla distanza di due unità astronomiche dalla nana gialla EN 7031.
Anton trasse un sospiro di sollievo, si asciugò il sudore dalla fronte e uscì dalla camera di azzeramento. Nella cabina di piotaggio tutto era in ordine. Passò davanti al quadro di comando, gettò uno sguardo allo schermo visore e girò l’interruttore dell’autopiota subspaziale. Sul quadro di comando davanti allo schermo giaceva ancora il mazzetto di garofani. Anton si fermò. «Peccato», borbottò. Toccò i fiori con un dito e i petali si dissolsero in una polvere verdastra. «Poveracci, — pensò Anton. — Non ce l’hanno fatta. Già, e chi ce la fa?» Si ricordò dei suoi passeggeri e scese nel quadrato.
Lì si aprivano le porte di tutte le otto cabine e il portello che dava nel piano inferiore, dove si trovavano le dispense, una cucinasintetizzatore, la doccia e tutto il resto. Anton gettò un’occhiata al tavolo, alle poltrone, rimise a posto il coperchio del condotto per le immondizie e si diresse alla cabina di Vadim. Fece scattare la serratura della camera di azzeramento e Vadim cascò fuori. Era bianco e bagnato come un topo.
— Ti senti male? — chiese Anton comprensivo.
Vadim intonò con voce da basso:
Poi, si slanciò verso un divano e si sedette.
— Ecco perché non sono diventato astronauta, — disse con voce un po’ rauca e rovesciò la testa all’indietro.
— Lo dici ogni volta, — disse Anton. Vadim tacque. — Vado a liberare Saul, — aggiunse Anton.
— Hai sentito la nostra conversazione? — chiese Vadim, senza aprire gli occhi.
— Sì.
— Persona interessante, no?
— Non so, — disse Anton. — Secondo me è una persona nei guai.
— Certo! Se no, non l’avresti preso sulla navicella. Appena ci prepariamo per un viaggio noi due, tu subito ti metti a fare l’altruista. Aspetta, non te ne andare…