«Non hai del risentimento personale per le mie opinioni antirobot?»

R. Daneel rispose: «Se non t’impediscono di lavorare con me e di aiutarmi nella missione, non hanno importanza».

Baley si sentì tradito. Disse, bellicoso: «Va bene, così ho superato l’esame. Ma tu che detective saresti?».

«Non ti capisco.»

«Sei stato progettato come macchina per raccogliere informazioni. Un’imitazione dell’uomo che osserva il modo di vivere terrestre e lo riferisce agli Spaziali.»

«Per un investigatore è un buon inizio, non credi? Essere una macchina che raccoglie informazioni, voglio dire.»

«Un inizio, forse. Ma alla lunga il lavoro non consiste solo in questo.»

«Stai tranquillo, i miei circuiti sono stati modificati prima dell’inizio della missione.»

«Mi piacerebbe sapere in che modo, Daneel.»

«È presto detto: nei miei banchi motivazionali è stato introdotto un potente impulso, il desiderio di giustizia.»

«Giustizia!» urlò Baley. Lo sguardo ironico scomparve dai suoi occhi e fu sostituito dalla più completa sfiducia.

Ma R. Daneel si voltò rapidamente e fissò la porta: «C’è qualcuno, là fuori».

C’era qualcuno, infatti. La porta si aprì ed entrò Jessie, pallida e disfatta.

Baley non ci capiva niente. «Jessie, qualcosa non va?»

Lei rimase immobile, evitando il suo sguardo. «Mi dispiace, ho dovuto…»

«Dov’è Bentley?»

«Passerà la notte nella Sala della Gioventù.»

Baley disse: «Perché? Non ti avevo chiesto questo».

«Hai detto che il tuo collega sarebbe rimasto qui, stanotte. Ho creduto che avesse bisogno della stanza del ragazzo.»

R. Daneel disse: «Non c’era bisogno, Jessie».

La donna alzò gli occhi e fissò R. Daneel con straordinaria intensità.

Baley si guardò le punte delle dita, immaginando quello che sarebbe seguito. Si sentiva male, ma era incapace di agire. Il silenzio che seguì gli fece rimbombare i timpani, finché, in distanza e come attraverso strati di plastex, sentì la voce ovattata di sua moglie: «Io credo che lei sia un robot, Daneel».

E R. Daneel rispose, calmo come al solito: «Lo sono».

VI

Sussurri in una camera da letto

In cima ai livelli dei settori più ricchi ci sono i solarium naturali, dove un divisorio di quarzo con un rivestimento mobile di metallo esclude l’aria ma lascia entrare la luce del sole. Là, mogli e figlie dei più alti funzionari della Città prendono la tintarella. E là, ogni sera, si ripete un fenomeno unico.

Cade la notte.

Nel resto della Città (compresi i solarium artificiali, dove milioni di persone, a turno e per un tempo rigidamente stabilito, possono esporsi alle lampade a raggi ultravioletti) il decorso della giornata è stabilito da un calendario convenzionale.

L’attività produttiva potrebbe continuare senza problemi ventiquattr’ore su ventiquattro, in tre turni di otto ore o in quattro di sei ore. Non ci sarebbe differenza fra "notte" e "giorno", ma luce e lavoro potrebbero seguire un ciclo ininterrotto. Non mancano mai i riformatori civici che periodicamente suggeriscono un’innovazione del genere, nell’interesse dell’economia e dell’efficienza.

Ma è una proposta che non verrà mai accettata.

La maggior parte dei vecchi costumi terrestri sono stati aboliti nell’interesse delle già citate efficienza e produttività: lo spazio, la privacy e perfino, in parte, il libero arbitrio. Dopotutto erano prodotti della civiltà, e non più vecchi di diecimila anni.

L’abitudine di dormire la notte, tuttavia, è vecchia quanto l’uomo: un milione di anni. Non è facile rinunciarci. Benché nessuno si accorga che sta scendendo la sera, le luci dei settori abitati si abbassano e il ritmo della Città rallenta. Benché nessuno possa distinguere il mezzogiorno dalla mezzanotte in base ai fenomeni cosmici, l’umanità continua a regolarsi sulle lancette dell’orologio anche nel corridoi delle Città.

Le strade celeri si vuotano, i rumori della vita si attenuano, la folla che brulica nelle colossali gallerie scema; New York City riposa sull’emisfero in ombra, anche se nessuno se ne accorge. E i suoi abitanti dormono.

Elijah Baley non dormiva. Era a letto e le luci erano spente, ma questo era tutto.

Jessie era stesa accanto a lui, immobile nelle te nebre. Non la sentiva muovere da un po’.

Oltre la parete, nella stanza accanto, riposava R. Daneel Olivaw (sdraiato? in piedi? seduto? Baley si domandò cosa).

Baley sussurrò: «Jessie!». E di nuovo: «Jessie!».

La sagoma scura accanto a lui si mosse lievemente. «Che cosa vuoi?»

«Jessie, non rendermelo ancora più difficile.»

«Avresti dovuto dirmelo.»

«E quando? Stavo pensando al modo migliore per farlo, ma tu… per Giosafatte!»

«Ssst.»

La voce di Baley si ridusse di nuovo a un sussurro. «Come l’hai scoperto? Perché non me lo dici?»

Jessie si girò dalla sua parte. Lije sentiva gli occhi che lo fissavano nel buio.

La voce di Jessie fu un’impercettibile vibrazione nell’aria. «Lije, quella cosa… può sentirci?»

«No, se parliamo così piano.»

«Come fai a saperlo? Potrebbe avere orecchie speciali che captano i più piccoli suoni. I robot Spaziali possono fare qualsiasi cosa.»

Baley lo sapeva. La propaganda prorobot non faceva che elencare i miracolosi poteri degli automi Spaziali, la loro durata, i sensi in più, i servigi che rendevano all’umanità in centinaia di nuovi modi. Personalmente Lije pensava che quel tipo di pubblicità fosse controproducente. I terrestri odiavano i robot a causa della loro potenza.

Sussurrò: «Non Daneel. L’hanno fatto uguale a noi di proposito. Volevano che venisse accettato come essere umano, quindi deve avere sensi come i nostri».

«Come lo sai?»

«Se ne avesse di più correrebbe il rischio di tradirsi. Farebbe troppo, saprebbe troppo eccetera.»

«Forse.»

Di nuovo il silenzio.

Passò un minuto e Baley tentò per la seconda volta. «Jessie, se lasci perdere questa storia fino a che… fino a che… insomma, non è giusto che tu sia arrabbiata.»

«Arrabbiata? Oh, Lije, stupido. Non sono arrabbiata, sono spaventata. A morte.»

Deglutì e gli strinse il collo del pigiama. Per un po’ rimasero stretti insieme, e la sensibilità ferita di Baley si placò, lasciando il posto alla preoccupazione.

«Perché, Jessie? Non c’è nulla di cui preoccuparsi, te lo giuro. È innocuo.»

«Non puoi liberarti di lui, Lije?»

«Sai che non posso. È una faccenda imposta dal Dipartimento, io non c’entro.»

«Che tipo di storia è, quella di cui vi state occupando? Dimmelo, Lije.»

«Jessie, mi meravigli.» Cercò la sua guancia nel buio e la carezzò. Era bagnata. Gliel’asciugò con la manica del pigiama.

«Stammi a sentire, ora» disse teneramente. «Ti stai comportando come una bambina.»

«Di’ a quelli del Dipartimento che assegnino il caso a qualcun altro, di qualunque cosa si tratti. Per favore, Lije.»

La voce di Baley s’indurì un poco. «Jessie, sei la moglie di un poliziotto da parecchi anni e sai che un incarico è un incarico.»

«Ma perché proprio tu?»

«Julius Enderby…»

Jessie s’irrigidì fra le sue braccia. «Avrei dovuto capirlo. Perché non dici a Julius Enderby che il lavoro sporco lo faccia qualcun altro, una volta tanto? Hai sopportato abbastanza, Lije, e questo è veramente…»

«D’accordo, d’accordo» disse lui per calmarla.

Lei si rilassò e cominciò a tremare.

"Non capirà mai" pensò Baley.

Fin dai tempi del fidanzamento Julius Enderby era stato fra loro la pietra della discordia. Enderby aveva frequentato la Scuola di Studi Amministrativi della Città, due classi più avanti di Baley. Quando Baley aveva superato i test attitudinali e la neuranalisi, ritrovandosi in coda per un posto alla polizia, aveva trovato Enderby ancora davanti a lui. Faceva parte della squadra investigativa.


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