Baley guardò il fulminatore scarico e disse a bassa voce: «Credo che questo sia tutto, dottor Gerrigel. Grazie per la collaborazione».

Baley mandò a prendere il pranzo (sformato di lievitonoci e una strana fetta di pollo fritto su un pezzo di pane biscottato) ma quando arrivò riuscì solo a guardarlo.

I suoi pensieri giravano in tondo, i lineamenti della faccia lunga sembravano scolpiti nello sconforto.

Viveva in un mondo irreale, in un mondo d’inganni.

Com’era successo? Il ricordo degli ultimi avvenimenti gli si presentò come una nebbia di sogno. Tutto era cominciato quando aveva messo piede nell’ufficio di Julius Enderby: allora era iniziato l’incubo, un incubo di delitti e di automi.

Perdinci, erano passate solo quindici ore!

Si era ostinato a cercare la soluzione a Spacetown; per due volte aveva accusato R. Daneel, una di essere un uomo in incognito e l’altra un vero robot, ma in entrambi i casi un assassino. Tutt’e due le volte l’accusa gli era stata ricacciata in gola, dimostrandosi falsa.

Lo stavano mettendo con le spalle al muro. Suo malgrado doveva cercare la risposta in Città, e dopo le ultime ore questa prospettiva l’atterriva. C’erano domande che si accalcavano alla soglia della sua mente conscia, ma che non ascoltava: sentiva che era meglio ignorarle, o non avrebbe potuto fare a meno di rispondere… Dio, aveva paura di quelle risposte.

«Lije! Lije!» Una mano gli strinse improvvisamente la spalla.

Bailey si scosse: «Cosa c’è, Phil?».

Phil Norris, agente investigativo C-5, sedette, mise le mani sulle ginocchia e guardò in faccia il collega. «Che ti succede, Lije? Ultimamente sembri fuori di te. Te ne stavi seduto con gli occhi sbarrati e io mi sono chiesto se eri ancora vivo.»

Si passò una mano sui capelli biondi, radi, e dette una sbirciatina famelica alla colazione di Baley. «Pollo!» disse Norris. «Fra un po’ te lo daranno solo se lo prescrive il medico.»

«Prendine un pezzo» disse Baley, distratto.

La buona creanza ebbe la meglio e Norris rispose: «Non fa niente, vado a mangiare fra un minuto. A proposito, come va fra te e il questore?».

«Cosa?»

Norris cercò di sembrare indifferente, ma le mani gli si agitavano in continuazione. «Andiamo, tu lo conosci, eravate compagni di scuola. Sta per darti una promozione?»

Baley aggrottò la fronte e si sentì di nuovo immerso nella realtà, almeno in parte: le beghe d’ufficio avevano sempre quest’effetto. Norris aveva la sua stessa anzianità e teneva d’occhio ogni segnale che potesse essere interpretato come una preferenza verso il collega.

Baley rispose: «Nessuna promozione, credimi, non è niente. Se è il questore che volete, vorrei potervelo dare. Sì, accidenti, lo giuro!».

«Non fraintendermi» disse Norris. «Non mi importa se verrai promosso. Sola, se hai un po’ di ascendente sul questore usalo per aiutare il ragazzo.»

«Che ragazzo?»

Non ci fu bisogno di rispondere. Vincent Barrett, il giovane che era stato licenziato per fare posto a R. Sammy, strusciava i piedi con nervosismo in un angolo della sala. Fra le mani rigirava una calotta e quando tentò di sorridere la pelle sbiancò sugli zigomi.

«Salve, signor Baley.»

«Oh, salve, Vince. Come va?»

«Non troppo bene, signore.»

Si guardava intorno con l’aria di chi ha fame. Baley pensò: "Sembra un fantasma. Per forza, è un declassato".

Poi, ferocemente, con le labbra che quasi formavano le parole per l’emozione, pensò: "Che vuole da me?".

Ma disse solo: «Mi dispiace, ragazzo». Non c’era altro da aggiungere.

«Pensavo… forse si è mosso qualcosa.»

Norris si avvicinò all’orecchio di Baley: «Bisogna fargli capire che è ora di finirla, con queste sostituzioni. Lo sai che stanno per buttare fuori Chenlow?».

«Cosa?»

«Non hai sentito?»

«No, non ho sentito. Dannazione, è uno C-3. Ha dieci anni di carriera alle spalle.»

«Sicuro, e una macchina con le gambe può fare il suo lavoro. A chi toccherà domani?»

Il giovane Barrett non si accorse della conversazione silenziosa, immerso com’era nei suoi pensieri. A un tratto disse: «Signor Baley?».

«Sì, Vince?»

«Sa che cosa dicono? Che Lyrane Millane, la ballerina della subeterica, è un robot.»

«Sciocchezze.»

«Sì? Dicono che possono fare robot così perfetti da sembrare uomini. Gon una speciale pelle di plastica, o qualcosa di simile.»

Baley pensò a R. Daneel con un senso di colpa e non trovò parole, ma scosse la testa.

Il ragazzo continuò: «Pensa che qualcuno si arrabbierà se vedo un po’ in giro? Mi fa sentire meglio vedere il vecchio posto».

«Fai pure, ragazzo.»

Il giovane si allontanò. Baley e Norris lo seguirono con lo sguardo, poi Norris disse: «Sembra che i medievalisti abbiano ragione».

«Vuoi dire quelle storie del ritorno alla terra?»

«No, voglio dire i robot. Ritorno alla terra, bah! Questo pianeta ha un futuro illimitato, ma non abbiamo nessun bisogno dei robot.»

Baley borbottò: «Otto miliardi di abitanti e l’uranio che si sta esaurendo. Cosa c’è di illimitato in tutto questo?».

«Non importa se l’uranio finisce, lo importeremo. O scopriremo altri processi atomici. Non è possibile fermare la razza umana, Lije. Devi essere ottimista e aver fede nel vecchio cervello dell’uomo: la nostra più grande risorsa è l’ingegno, e non resteremo mai a corto di quello.»

Era lanciato, adesso. Continuò: «Innanzi tutto possiamo usare l’energia solare, che basterà miliardi di anni. Possiamo costruire stazioni spaziali entro l’orbita di Mercurio e farle funzionare da accumulatori. Trasmetteremo l’energia alla Terra con un raggio diretto».

L’idea non era nuova: i pensatori eterodossi un po’ ai margini della scienza l’accarezzavano da centocinquant’anni, ma Quello che ne aveva impedito la realizzazione era l’impossibilità di ottenere un raggio tanto compatto da attraversare ottanta milioni di chilometri senza perdite tali da renderlo inutile. Baley lo disse.

«Quando sarà necessario risolveremo anche questo» replicò Norris. «Perché preoccuparsi?»

Baley tentò di raffigurarsi una Terra dotata di fonti di energia illimitate: la popolazione sarebbe cresciuta ancora; le fattorie dei lieviti si sarebbero ingrandite e le colture idroponiche sarebbero state intensificate. L’energia era la sola cosa indispensabile. I minerali grezzi potevano essere importati dagli asteroidi o dagli altri corpi disabitati del sistema solare; se l’acqua fosse diventata un problema, la si sarebbe trovata sulle lune di Giove. Diavolo, gli oceani potevano essere congelati e "sparati" nello spazio, dove si sarebbero messi a girare intorno alla Terra come piccole lune, restando a disposizione; mentre il fondo avrebbe fornito nuove terre fertili e spazio per vivere. Il carbonio e l’ossigeno potevano essere mantenuti, e addirittura incrementati, utilizzando l’atmosfera al metano di Titano e l’ossigeno gelato di Umbriel.

La popolazione terrestre avrebbe raggiunto un bilione di abitanti, forse due. Perché no? C’era stato un tempo in cui l’attuale cifra di otto miliardi sarebbe sembrata impossibile. C’era stato un tempo in cui perfino una popolazione d’un miliardo sarebbe parsa astronomica. Dal medioevo in poi i profeti di sventura malthusiani si erano succeduti con implacabile regolarità, e avevano sempre sbagliato.

Ma che avrebbe detto Fastolfe davanti a un’ipotesi del genere?

Un mondo d’un bilione di abitanti, certo! Un pianeta dipendente in tutto, perfino nell’aria che respirava e l’acqua che beveva. E l’energia doveva essergli fornita da accumulatori lontani ottanta milioni di chilometri. Che fantastica instabilità, per un mondo del genere! La Terra era, e sarebbe rimasta, a un soffio dalla catastrofe completa; una catastrofe che poteva essere scatenata dal più piccolo guasto nell’immenso meccanismo grande come il sistema solare.


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