Tra poco l'avrebbe saputo.

Fuori c'era il sole e faceva caldo. La Kirkegata era quasi deserta. Nella luce del primo mattino, i colori delle case e il verde degli alberi splendevano con particolare intensità. Sembrava quasi che Trondheim stesse facendo le prove generali per la primavera. Con quel clima straordinariamente bello, gli ultimi residui di neve si erano già sciolti. Johanson decise che quella giornata era di suo gradimento e che gli piaceva pure l'idea che Tina l'avesse svegliato. Si mise a fischiettare una melodia di Vivaldi per dar sfogo a quella improvvisa esplosione di buon umore e per impedire che lo condizionasse troppo mentre guidava la jeep sul Gloshaugen. Ufficialmente, durante il fine settimana, l'NTNU era chiuso, ma quasi nessuno si atteneva a quella norma. Anzi era il momento migliore per leggere la posta, rispondere alle e-mail e lavorare indisturbati.

Una volta arrivato, entrò nell'ufficio postale,, rovistò nella sua casella e ne estrasse una busta rigonfia, proveniente dal Forschungsinstitut und Naturmuseum Senckenberg di Francoforte. Quasi certamente conteneva le analisi di laboratorio che Tina stava aspettando con tanta ansia. Johanson infilò in tasca la busta senza aprirla, lasciò l'università e si diresse verso Tyholt.

Il Marintek, l'Istituto di tecnologie marine, era strettamente collegato all'NTNU, al Sintef e al centro di ricerca della Statoli. Oltre a diverse cisterne per le simulazioni e gallerie delle onde, vi era anche la più grande piscina d'acqua marina al mondo, utilizzata per la ricerca. Serviva per simulare i venti e il moto ondoso con modelli in scala. Praticamente ogni costruzione destinata a galleggiare sullo zoccolo norvegese era stata testata in quella vasca lunga ottanta metri e profonda dieci. Sistemi generatori di onde producevano correnti e tempeste in miniatura, con cavalloni alti fino a un metro. Con una piattaforma in scala ridotta era una dimensione devastante. Johanson pensò che proprio lì Tina stesse testando la stazione sottomarina destinata a essere installata sulla scarpata continentale.

Infatti la trovò nel padiglione del bacino, intenta a discutere con un gruppo di scienziati. La scena faceva uno strano effetto. Nell'acqua c'erano alcuni sommozzatori che nuotavano intorno a una piattaforma di estrazione formato giocattolo. Petroliere in miniatura navigavano in mezzo alle barche a remi dei tecnici. A una prima occhiata, sembrava un incrocio tra un laboratorio, un negozio di giocattoli e un laghetto per le gite in barca durante le domeniche estive; ma la prima impressione ingannava. Senza il Marintek, il settore offshore praticamente non sarebbe esistito.

Tina lo vide e interruppe la conversazione. Gli andò incontro, ma, per farlo, fu costretta a girare intorno alla vasca. Come sempre, si muoveva a passi rapidi.

«Perché non hai usato la barca?» chiese Johanson.

«Non siamo al laghetto del parco», ribatté Tina. «Tutto deve essere perfettamente coordinato. Se passo in mezzo alla simulazione provocando delle onde, centinaia di lavoratori petroliferi perderebbero la vita e la responsabilità sarebbe mia.» Gli diede un bacio sulla guancia. «Oh, Sigur… Pungi.»

«Tutti gli uomini con la barba pungono», borbottò luì. «Puoi essere contenta che Kare si rada, altrimenti non avresti nessun motivo per preferirlo a me. A che cosa state lavorando? Alla soluzione dei vostri problemi sottomarini?»

«Nei limiti del possibile. La piscina ci consente simulazioni realistiche fino a mille metri; a profondità superiori, i dati sono troppo imprecisi.»

«Comunque è sufficiente per il vostro progetto.»

«Certo, ma usiamo anche i computer per elaborare scenari alternativi. A volte si discostano dai risultati del bacino, allora cambiamo i parametri finché non raggiungiamo un allineamento soddisfacente.»

«La Shell mira a una stazione posta a duemila metri di profondità. L'ho letto ieri sul giornale. Avete concorrenza.»

«Lo so. La Shell ha incaricato il Marintek. È una bella gatta da pelare. Vieni, andiamo a fare colazione.»

Una volta in corridoio, Johanson disse: «Continuo a non capire perché non volete utilizzare le SWOP. Non è più facile lavorare da una costruzione galleggiante, se riuscite ad andare in profondità con le tubature flessibili?»

Lei scosse la testa. «Troppo rischioso. Le costruzioni galleggianti devono essere ancorate…»

«Lo so, tutte…» la interruppe lui.

«… e possono staccarsi», finì Tina.

«Però tutte le piattaforme sono ancorate allo zoccolo continentale.»

«Si, ma a profondità minori. Più in basso ci sono correnti di altro tipo e un diverso moto ondoso. Ma non è solo il problema dell'ancoraggio. Se le condutture di estrazione vengono spinte a profondità elevate, diventano instabili e noi non vogliamo un disastro ecologico. Inoltre non si troverebbe nessuno disposto a lavorare tanto al largo su un ponte galleggiante. Persino i più incalliti vomiterebbero anche l'anima. Andiamo di qua.»

Salirono una scala.

«Credevo che andassimo a colazione», disse Johanson sorpreso.

«Certo, ma prima voglio mostrarti una cosa.»

Tina spalancò una porta. Si trovavano in un ufficio proprio sopra il padiglione del bacino. Dall'ampia finestra si vedevano file di case coi tetti spioventi illuminati dal sole e parchi che si estendevano verso il fiordo.

«Che magnifica mattinata», mormorò Johanson.

Tina si avvicinò a una scrivania. Prese due sedie di resopal e aprì un laptop dall'ampio schermo. Mentre il computer caricava il programma, la donna tamburellava sul piano del tavolo. Infine comparvero alcune fotografie che lui conosceva. Mostravano una macchia chiara, lattiginosa, che ai bordi si perdeva nel nero.

«Sono le immagini riprese da Victor. Quella cosa sulla scarpata», disse Johanson.

«Quella cosa che non mi dà pace», confermò Tina.

«Avete scoperto cos'è?»

«No, però sappiamo che cosa non è. Non è una medusa, non è un banco di pesci. Abbiamo analizzato la sequenza con migliaia di filtri. Questa è la migliore che siamo riusciti a ottenere.» Ingrandì la prima fotografia. «Quando quell'essere è finito davanti all'obiettivo, era colpito dalla luce violenta del riflettore. Ne abbiamo visto una parte, ma naturalmente in maniera molto diversa da come l'avremmo vista senza luce artificiale.»

«Senza luce, a quella profondità, non avreste visto nulla», osservò lui.

«Infatti!»

«A meno che non si sia di fronte a un caso di bioluminescenza…» Si bloccò.

Tina gli scoccò un'occhiata soddisfatta. Le sue dita danzarono sulla tastiera e l'immagine cambiò di nuovo. Stavolta apparve un dettaglio del bordo superiore destro. Proprio dove la chiazza illuminata si perdeva nel buio s'intravedeva qualcosa. Una luminosità di un blu intenso attraversata da linee più chiare. «Se s'illumina un oggetto luminoso, non si vede più nulla della sua luminosità. E i riflettori di Victor abbagliano tutto. Tranne ai margini, dove la luce si disperde. Lì si riesce a riconoscere qualcosa. A mio giudizio è la prova che abbiamo a che fare con un essere luminoso. E anche molto grande», disse lei.

La bioluminescenza era una caratteristica di molti abitanti degli abissi, ottenuta grazie a batteri con cui essi vivevano in simbiosi. C'erano organismi luminosi anche sulla superficie marina, come alcune alghe e piccole seppie. Però il vero mare di luce cominciava là dove spariva la luce del sole. Nel buio totale degli abissi marini.

Johanson fissò lo schermo. Il blu si riusciva più a intuirlo che a vederlo. Un occhio non abituato non l'avrebbe notato. Ma la telecamera del robot aveva una definizione molto elevata. Probabilmente Tina aveva ragione. Si fregò la barba. «Secondo te, quanto è grande?»

«Difficile dirlo. A giudicare dalla rapidità con cui è sparito, doveva essere al limite del fascio luminoso. Ad alcuni metri di distanza. Tuttavia la sua superficie ha occupato quasi tutto l'obiettivo. Che ne deduci?»


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