5 aprile
Vancouver e Vancouver Island, Canada
Gli affari si rimisero in moto.
In altre circostanze, Anawak avrebbe condiviso la gioia di Shoemaker. Le balene ritornavano e il gestore non parlava d'altro. E infatti, l'una dopo l'altra, arrivarono balene grigie, megattere, orche e addirittura alcune balenottere minori. Naturalmente anche Anawak era felice del loro ritorno. Non c'era nulla che avesse desiderato di più. Però avrebbe preferito collegare il loro ritorno ad alcune risposte: in particolare si chiedeva dove si fossero nascoste per tutto quel tempo, visto che non erano riusciti a rintracciarle né i satelliti né le sonde. E poi non riusciva a dimenticare quel memorabile incontro. Si era sentito come una cavia da laboratorio. Le due megattere l'avevano osservato con calma e attenzione, come se fosse sul tavolo anatomico.
Erano esploratrici? E che cosa dovevano esplorare? Assurdo!
Chiuse la cassa e uscì. I turisti si erano raccolti sul molo. Con le loro tute color arancione sembravano un gruppo di soldati dei reparti speciali. Anawak inspirò la fresca aria mattutina e li raggiunse.
Poi sentì arrivare qualcuno di corsa.
«Dottor Anawak!»
Si fermò e, voltandosi, scorse Alicia Delaware. Si era raccolta i capelli rossi in una coda di cavallo e portava occhiali da sole alla moda, di colore blu. «Posso venire anch'io?» chiese.
Anawak la squadrò. Poi guardò lo scafo blu del Blue Shark. «Siamo al completo», rispose.
«Sono arrivata di corsa.»
«Mi dispiace. Tra mezz'ora parte la Lady Wexham. È molto più confortevole. Grande, cabine interne riscaldate, snack bar…»
«Non voglio. Sono sicura che c'è ancora un po' di spazio per me. Magari dietro!»
«Nella cabina siamo già in due, Susan e io.»
«Non ho bisogno di un posto a sedere.» Alicia sorrise. Con quei grandi denti sembrava un coniglio lentigginoso. «La prego! Non ce l'ha con me, vero? Vorrei tanto uscire in mare con lei. A dire il vero vorrei uscire solo con lei.»
Anawak aggrottò la fronte.
«Non mi guardi così!» Alicia Delaware strabuzzò gli occhi. «Ho letto tutti i suoi libri e ammiro il suo lavoro.»
«Non ho avuto questa impressione.»
«Per quello che è successo all'acquario?» Fece un gesto come per scacciare il ricordo. «Mettiamoci una pietra sopra. La prego, dottor Anawak, sono qui ancora per un giorno soltanto. Mi farebbe un piacere enorme.»
«Abbiamo le nostre regole», replicò Anawak, ma in un tono che suonò fiacco e meschino persino a lui.
«Mi stia a sentire, testone», esclamò Alicia. «Sono fatta d'acqua. L'avverto: se non mi prende con sé, mi scioglierò in lacrime durante il volo di ritorno a Chicago. Vuole assumersi questa responsabilità?» concluse, fissandolo divertita.
Anawak non poté fare altro che mettersi a ridere. «Va bene. Per quello che mi riguarda, può venire.»
«Davvero?»
«Sì. Ma non mi rompa le scatole con le sue teorie astruse.»
«Non sono le mie teorie, sono le teorie di…»
«Sarebbe ancora meglio se tenesse la bocca chiusa.»
Alicia si preparò a replicare, ma poi ci ripensò e annuì.
«Aspetti qui», disse Anawak. «Le prendo una tuta.»
Alicia mantenne la promessa per ben dieci minuti. Le case di Tofino erano appena scomparse dietro il pendio ricoperto di boschi, quando si avvicinò ad Anawak e gli tese la mano. «Mi chiami pure Licia», disse.
«Licia?»
«Sta per Alicia. Alicia è un nome stupido. Almeno così mi pare. Naturalmente i miei genitori non la pensavano così, ma non ci chiedono il nostro parere quando ci danno il nome: è sempre stata una situazione penosa. Lei si chiama Leon, vero?»
Lui strinse la mano che la ragazza gli aveva teso. «È un piacere, Licia.»
«Bene. E ora dovremmo chiarire una cosa», disse lei.
Anawak lanciò un'occhiata a Susan, che stava guidando lo zodiac, chiedendole silenziosamente aiuto. Lei rispose al suo sguardo, ma poi scrollò le spalle e si dedicò esclusivamente alla rotta da seguire. «Che cosa?» chiese allora, con cautela.
«Quello che è successo all'acquario… Be', sono stata stupida e saccente. Mi dispiace.»
«Già dimenticato.»
«Ma devi scusarti anche tu.»
«Come? E di che?»
Lei abbassò lo sguardo. «Nulla da dire sul fatto che tu abbia ridicolizzato le mie opinioni davanti ad altre persone, ma non avresti dovuto esprimerti in quel modo sul mio aspetto.»
«Io non ho…» Al diavolo.
«Hai detto che un beluga che mi vedesse mentre mi trucco dubiterebbe della mia intelligenza.»
«Non era mia intenzione offenderti. Era solo un paragone… astratto», spiegò lui.
«Era un pessimo paragone.»
Anawak si grattò la testa. Si era arrabbiato con Alicia perché era arrivata all'acquario col suo armamentario d'idee preconcette, dimostrandosi così un'ignorante. Ma probabilmente lui non era stato da meno. E, senza dubbio, con la sua esplosione di rabbia l'aveva offesa. «Va bene. Ti porgo le mie scuse.»
«Accettate.»
«Ti riferivi a Povinelli», affermò lui.
Lei sorrise, pensando che, in fondo, Anawak l'aveva presa sul serio. Daniel Povinelli era il più importante antagonista di Gordon Gallup nella discussione sull'intelligenza e sulla consapevolezza di sé dei primati e degli altri ammali. Lui concordava con Gallup sul fatto che gli scimpanzé che si riconoscono allo specchio avevano una rappresentazione di se stessi. Altrettanto decisamente, però, negava che tale circostanza li rendesse capaci di capire le proprie condizioni mentali e quindi anche quelle degli altri esseri viventi. Per Povinelli non era affatto dimostrato che gli animali possedessero la comprensione psicologica propria dell'uomo.
«Povinelli sta percorrendo una strada coraggiosa», disse Alicia. «Le sue opinioni appaiono superate, ma lui non se ne cura. Per Gallup è molto più facile, perché fa chic parlare di scimpanzé, delfini e chissà cos'altro come soggetti con gli stessi diritti dell'uomo.»
«Sono soggetti con gli stessi diritti dell'uomo», obiettò Anawak.
«In senso etico.»
«Lasciamo perdere. L'etica è un'invenzione degli uomini», disse lui.
«Nessuno ne dubita. Nemmeno Povinelli.»
Anawak fece scorrere lo sguardo lungo l'insenatura. Nel suo campo visivo entrarono alcune isolette. «Lo so dove vuoi arrivare», disse dopo una breve pausa. «Tu credi che dimostrare l'esistenza di tratti umani negli animali non sia la strada giusta per arrivare a trattarli più umanamente.»
«È arrogante», gridò Alicia.
«Ti do ragione. Non risolve il problema. Ma la maggior parte degli uomini crede che una forma di vita meriti di essere protetta quanto più somiglia agli esseri umani. È più facile uccidere un animale anziché un uomo. Diventa più difficile se vediamo l'animale come un nostro parente prossimo. È un concetto che la maggior parte delle persone è pronta ad accettare, anche se si fonda sul presupposto della superiorità umana. C'è invece una minoranza che non considera l'umanità l'apice della creazione e crede che, nella scala di valore della vita, l'uomo non sia al di sopra di tutti gli altri esseri viventi, ma molto più semplicemente di fianco. Riguardo a ciò che pensa la maggior parte, rimane un problema: come posso pretendere che a un animale o a una pianta siano dedicate le stesse attenzioni che si prestano agli uomini, se considero il valore della vita umana superiore a quello di una formica, di una scimmia o di un delfino?»
«Ehi!» Alicia batté le mani. «La pensiamo allo stesso modo.»
«Quasi. Credo che tu sia un po' troppo… messianica nelle tue concezioni. Personalmente difendo l'idea che la psiche di uno scimpanzé o di un beluga mostri punti di contatto con quella umana.» Alicia stava già per obiettare qualcosa, ma Anawak la fermò, sollevando una mano. «Va bene, formuliamolo in un altro modo: potremmo salire nella scala di valori di un beluga — ammesso che i cetacei abbiano simili pensieri — se il beluga scoprisse in noi delle somiglianze con lui.» Sorrise. «Forse alcuni beluga ci considerano anche intelligenti. Detto così ti piace di più?»