In quel tardo pomeriggio invernale, di ritorno da un fine settimana interamente dedicato al passato, Johanson guidava la sua jeep lungo Ovre Bakklandet verso l'NTNU. Alla sua destra si snodava lo splendente fiume Nidelva. Era stato nei boschi e aveva visitato i villaggi della zona che sembravano non essere neppure stati sfiorati dal tempo. D'estate avrebbe preso la Jaguar, mettendo nel bagagliaio un cestino da picnic con pane appena sfornato, pâté di fegato d'oca acquistato in gastronomia e avvolto in carta stagnola e una bottiglia di Gewürztraminer, preferibilmente del 1985. Fin da quando si era trasferito lì da Oslo, Johanson aveva scoperto una serie di luoghi in cui non si trovavano né gli abitanti di Trondheim, in cerca di tranquillità, né turisti. Due anni prima, per caso, era finito sulla riva di un laghetto appartato e lì, con grande gioia, aveva visto una piccola casa di campagna da ristrutturare. C'era voluto del tempo per trovare il proprietario — un dirigente della società di ricerche petrolifere Statoil che si era temporaneamente trasferito a Stavanger, — ma poi l'acquisto della casa era stato concluso in fretta. L'uomo era stato felicissimo di aver trovato un acquirente e l'aveva venduta a poco prezzo. Nelle settimane successive, Johanson l'aveva fatta rimettere in sesto da alcuni russi immigrati illegalmente e l'aveva trasformata sul modello dei rifugi che i signori del XIX secolo amavano adibire a residenza di campagna e luogo di piacere.
Durante le lunghe serate estive, lui sedeva nella veranda con vista sul lago, leggeva i più visionari tra i classici — da Thomas More a Jonathan Swift e H.G. Wells — ascoltava Mahler e Sibelius, il pianoforte di Glenn Gould e le composizioni di Ravel nell'interpretazione di Celibidache. Aveva anche raccolto una voluminosa biblioteca. Johanson possedeva due copie di quasi tutti i suoi libri preferiti e lo stesso valeva per i CD. Non poteva pensare di rinunciarvi, ovunque si trovasse.
Johanson guidava lungo il terreno leggermente in salita. Davanti a lui c'era il blocco principale dell'NTNU, un imponente edificio spolverato di neve, costruito all'inizio del XX secolo. Sembrava quasi un castello. Dietro di esso si estendeva la zona universitaria vera e propria, coi fabbricati per le aule e coi laboratori. Diecimila studenti popolavano un'area che sembrava una piccola città. Ovunque dominava una vitalità rumorosa. Si concesse un momento per gustare il ricordo della sensazione di benessere provata al lago. Era stato fantastico, lì, da solo e in uno stato di profonda ispirazione. Talvolta, l'estate precedente, aveva portato con sé una ragazza, un'assistente del dipartimento di Cardiologia, conosciuta durante un viaggio per recarsi a un congresso. Erano arrivati in fretta al dunque, ma, alla fine dell'estate, per Johanson quella storia era già finita. Non voleva legami, soprattutto perché sapeva valutare perfettamente la realtà: lui aveva cinquantasei anni e lei trenta di meno. Bello per qualche settimana; inaccettabile per la vita, soprattutto perché ormai ciò che aveva vissuto era molto più di quanto gli restava da vivere.
Posteggiò nel parcheggio a lui riservato e si avviò verso l'edificio della facoltà di Scienze naturali. Quando entrò nel suo ufficio, aveva la mente ancora persa nel ricordo del lago e quasi non si accorse di Tina Lund che stava alla finestra e che si era voltata al suo arrivo.
«Sei un po' in ritardo», ironizzò la donna. «È colpa del vino rosso oppure c'era qualcuno che non ti voleva lasciar andare?»
Johanson sorrise. Tina Lund lavorava per la Statoil ed era impegnata nei centri di ricerca della Sintef. La fondazione Sintef era una delle più grandi strutture di ricerca indipendenti d'Europa e le industrie norvegesi offshore dovevano proprio alla Sintef il loro sviluppo nei settori più all'avanguardia. Era principalmente grazie alla stretta collaborazione tra la Sintef e l'NTNU che Trondheim si era guadagnata la fama di centro per le tecnologie sperimentali. Gli impianti della Sintef erano distribuiti in tutta la zona. E Tina Lund, che nel corso di una breve e rapida carriera era diventata vice capo progetto per la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi, da alcune settimane aveva piantato le tende al Marintek, l'Istituto di tecnologie marine, di fatto una succursale della Sintef.
Mentre si levava il cappotto, Johanson osservò la figura alta e slanciata della donna. Tina gli piaceva. Alcuni anni prima tra loro era sbocciato l'amore, ma solo per poco: si erano resi subito conto che sarebbe stato meglio lasciar perdere e mantenere soltanto una buona amicizia. Da allora, si scambiavano informazioni sul lavoro e ogni tanto andavano a mangiare insieme.
«Gli uomini anziani devono farsi delle belle dormite», ribatté Johanson. «Vuoi un caffè?»
«Se c'è.»
Guardò nell'ufficio della segreteria e ne trovò una caffettiera piena. La sua segretaria non c'era.
«Solo latte», gridò Tina.
«Lo so.» Sigur Johanson versò il caffè in due grandi tazze e in una aggiunse il latte, poi tornò nel suo ufficio. «So tutto di te. Te ne sei dimenticata?»
«Non sei arrivato al punto di conoscermi così a fondo.»
«No, grazie al cielo. Siediti. Come mai sei qui?»
Tina prese il caffè e ne bevve un sorso, ma non fece neppure il gesto di sedersi. «Per un verme, credo.»
Johanson aggrottò le sopracciglia e la osservò. Tina ricambiò lo sguardo come se si aspettasse una presa di posizione ancor prima di sentire la domanda. Aveva un temperamento impaziente.
Lui bevve un sorso. «Credi?»
Invece di rispondere, lei prese dal davanzale della finestra un contenitore di acciaio smerigliato e lo appoggiò sulla scrivania davanti a Johanson. «Guarda dentro.»
Lui sbloccò la chiusura e sollevò il coperchio. Il contenitore era per metà pieno d'acqua, nella quale si attorcigliava qualcosa di lungo e peloso. Lo osservò con attenzione.
«Hai idea di cosa sia?» chiese Tina.
Lui scrollò le spalle. «Vermi. Due esemplari. Davvero magnifici.»
«Anche noi siamo della stessa opinione. È la specie che ci fa impazzire.»
«Voi non siete biologi. Sono policheti.»
«Lo so, che sono policheti.» Tina esitò. «Li puoi esaminare e classificare? Ci servirebbero dei dati il prima possibile.»
«Certo.» Johanson si chinò sul piccolo contenitore. «Come ho già detto, sono senza dubbio policheti. E anche belli. Tutti colorati. Il fondale marino è abitato da animaletti simili. Ma non ho idea di che specie siano. Perché vi preoccupano?»
«Se solo lo sapessimo…»
«Non lo sapete?»
«Arrivano dal margine continentale. Da settecento metri di profondità.»
Johanson si grattò il mento. Gli animali nel contenitore guizzavano e si attorcigliavano. Volevano mangiare, pensò lui, però lì non c'era niente. Trovava singolare che fossero ancora vivi. La maggior parte degli organismi soffriva quando veniva portata in superficie da una simile profondità. Sollevò lo sguardo. «Posso provarci. Domani va bene?»
«Sarebbe l'ideale.» Tina fece una pausa, poi riprese: «Hai notato qualcosa, vero? Ti si legge negli occhi».
«Forse.»
«Che cosa?»
«Non posso dirlo con sicurezza. Non sono un classificatore di specie, non sono un tassonomo. Ci sono policheti di tutti i colori e di tutte le forme possibili. Non ne conosco tutta la gamma, però ne conosco una buona quantità. Questi qui mi sembrano… Non lo so, appunto, non lo so.»
«Peccato.» Il viso di Tina si rabbuiò, ma subito dopo lei sorrise. «Perché non li esamini subito e a pranzo mi dici il tuo parere?»
«Così in fretta? Credi che non abbia niente da fare?»
«Se penso a che ora sei arrivato, non posso credere che tu sia sommerso di lavoro.»
Sfortunatamente aveva ragione. «Va bene», sospirò Johanson. «Possiamo trovarci all'una nella caffetteria. Dovrei tagliarne dei pezzettini… Posso farlo oppure avevi intenzione di stringere amicizia con loro?»