Atterrò leggermente, in piedi, accanto a Diaspro; e quello, che non rideva mai rumorosamente, si scostò dicendo: — Lo Sparviero che non sa volare…

—  Il diaspro è una pietra preziosa? — ribatté Ged con un sogghigno. — Gemma degli incantatori, gemma di Havnor, scintilla per noi!

Il ragazzo che aveva messo in moto le luci danzanti ne fece scendere una a brillare intorno alla testa di Diaspro. Meno sereno del solito, aggrottando la fronte, Diaspro scacciò la luce con un gesto e la spense. — Sono stanco dei ragazzini e del chiasso e di queste sciocchezze — disse.

—  Stai diventando vecchio, ragazzo mio — commentò Veccia dall’alto.

—  Se è il silenzio e l’oscurità che vuoi — s’intromise uno dei ragazzi più giovani, — puoi sempre provare con la torre.

Ged gli chiese: — Cosa vuoi, allora?

—  Voglio la compagnia dei miei pari — disse Diaspro. — Vieni, Veccia. Lasciamo gli apprendisti ai loro giocattoli.

Ged si girò verso di lui. — Cos’hanno gli incantatori che gli apprendisti non abbiano? — chiese. La sua voce era calma, ma tutti gli altri ragazzi ammutolirono di colpo perché nel suo tono, come in quello di Diaspro, l’acrimonia che era tra loro risuonava chiara come acciaio che esce dal fodero.

—  Il potere — disse Diaspro.

—  Uguaglierò il tuo potere, atto per atto.

—  Mi sfidi?

—  Ti sfido.

Veccia s’era lasciato cadere al suolo: si mise in mezzo a loro, cupo in volto. — I duelli di magia ci sono vietati, e lo sapete benissimo. Finitela!

Ged e Diaspro rimasero in silenzio, perché era vero che conoscevano la legge di Roke e sapevano anche che Veccia era spinto dall’affetto e loro dall’odio. Eppure la loro collera crebbe anziché placarsi. Poco dopo, scostandosi come se volesse farsi udire soltanto da Veccia, Diaspro disse, col suo sorriso tranquillo: — Credo che faresti bene a rammentare ancora al tuo amico capraio la legge che lo difende. Mi sembra imbronciato. Crede davvero che accetterei la sua sfida? Un giovane che puzza di capra, un apprendista che non conosce la prima metamorfosi?

—  Diaspro — replicò Ged, — cosa ne sai, tu, di quello che so io?

Per un istante, senza pronunciare una parola, Ged svanì alla loro vista, e al suo posto si librò un grande falco che aprì il rostro adunco per gridare: un istante, e Ged riapparve nella luce guizzante delle torce fissando su Diaspro lo sguardo tenebroso.

Diaspro era arretrato di un passo, sbalordito; ma poi scrollò le spalle e pronunciò una sola parola: — Illusione.

Gli altri mormorarono. Veccia disse: — Non era illusione, era una vera metamorfosi. E basta. Diaspro, ascolta…

—  Basta per dimostrare che ha sbirciato il Libro delle Forme dietro la schiena del maestro: e allora? Continua, capraio. Mi piace la trappola che ti stai costruendo da solo. Più cerchi di dimostrarti mio pari, e più ti riveli per quello che sei.

A queste parole, Veccia voltò le spalle a Diaspro e mormorò a Ged: — Sparviero, comportati da uomo e lascia perdere. Vieni con me…

Ged guardò l’amico e sorrise, ma disse soltanto: — Custodiscimi un momento l’hoeg, ti dispiace? — Mise nelle mani di Veccia il piccolo otak, che come al solito gli stava sulla spalla. La bestiola non si era mai lasciata toccare da altri che Ged, ma questa volta andò da Veccia, gli si arrampicò sul braccio e si appollaiò sulla sua spalla tenendo gli occhi lucenti sempre fissi sul suo padrone.

—  Ora — disse Ged a Diaspro, senza alzare la voce, — cosa intendi fare per dimostrarti superiore a me?

—  Non ho bisogno di far nulla, capraio. Tuttavia lo farò. Ti darò un’occasione. Una possibilità. L’invidia ti rode come un verme rode la mela. Facciamo uscire il verme. Una volta, ai piedi della collina di Roke, ti sei vantato che i maghi di Gont non giocano. Vieni alla collina di Roke, adesso, e mostraci cosa fanno. E poi, forse ti mostrerò un po’ di magia.

—  Sì, mi piacerebbe vederla — replicò Ged. I ragazzi più giovani, abituati a vederlo scattare al minimo accenno d’insulto o di mancanza di riguardo, lo guardavano sbalorditi per la sua calma. Veccia lo fissava senza stupore ma con crescente paura. Tentò d’intervenire ancora, ma Diaspro disse: — Non immischiarti, Veccia. Capraio, approfitterai dell’occasione che ti offro? Ci mostrerai un’illusione, una sfera di fuoco, un incantesimo per guarire le capre dalla rogna?

—  Cosa vorresti che facessi, Diaspro?

L’altro scrollò le spalle. — Evocare uno spirito dei morti, per quello che m’interessa!

—  Lo farò.

—  No, non lo farai. — Diaspro lo guardò fisso, mentre la rabbia prendeva improvvisamente il sopravvento sul disprezzo. — Non lo farai. Non ne sei capace. Ti vanti e ti vanti…

—  Per il mio nome, lo farò!

Per un momento, tutti restarono immoti.

Svincolatosi da Veccia che avrebbe voluto trattenerlo con la forza, Ged uscì dal cortile senza voltarsi indietro. Le luci incantate che danzavano nell’aria discesero spegnendosi. Diaspro esitò un attimo, poi seguì Ged. E gli altri si accodarono, in silenzio, incuriositi e spaventati.

Le pendici della collina di Roke salivano buie nell’oscurità della notte estiva, prima del levar della luna. La presenza di quella collina dove tanti prodigi erano stati compiuti aleggiava come un peso nell’aria intorno a loro. Quando giunsero sul pendio pensarono alla profondità delle sue radici, più profonde del mare: scendevano fino ai vecchi e ciechi fuochi segreti nel cuore del mondo. Si fermarono sul pendio orientale. Le stelle brillavano sopra l’erba nera, dietro di loro, sulla cresta della collina. Non spirava alito di vento.

Ged si staccò dagli altri di qualche passo, si voltò e disse con voce chiara: — Diaspro! Quale spirito devo chiamare?

—  Chiama chi vuoi. Nessuno ti ascolterà. — La voce di Diaspro tremava un po’, forse per la collera. Ged domandò sommessamente, con tono beffardo: — Hai paura?

Non ascoltò neppure la risposta di Diaspro, se pure lui rispose. Non si curava più di Diaspro. Ora che stavano sulla collina di Roke, l’odio e la rabbia erano svaniti, sostituiti da un’assoluta certezza. Non doveva invidiare nessuno. Sapeva che il suo potere, quella notte, su quel buio terreno incantato, era più grande di quanto fosse mai stato, e lo saturava al punto che lui tremava di una forza difficile da tenere a freno. Adesso sapeva che Diaspro era molto inferiore a lui, e forse era stato inviato solo per portarlo lì quella notte: non era un rivale, ma soltanto un servitore del suo destino. Sentiva sotto i piedi le radici della collina che sprofondavano nella tenebra, e sopra il capo vedeva gli aridi fuochi lontani delle stelle. E lui poteva comandare a tutte le cose: era al centro del mondo.

—  Non temere — disse sorridendo. — Chiamerò lo spirito di una donna. Non dovrai aver paura di una donna. Evocherò Elfarran, la bella dama delle Gesta di Enlad.

—  È morta mille anni fa, le sue ossa giacciono lontano sotto il mare di Éa, e forse non è mai esistita.

—  Gli anni e le distanze contano qualcosa, per i morti? I canti mentono? — ribatté Ged con la stessa soave ironia. Poi, dicendo «Osserva l’aria tra le mie mani», voltò le spalle agli altri e restò immobile.

Quindi, con un gran gesto lento, tese le braccia nel segno di benvenuto che apre un’invocazione. Cominciò a parlare.

Aveva letto le rune di quell’incantesimo di evocazione nel libro di Ogion, più di due anni prima, e non le aveva più rilette. Le aveva lette nell’oscurità, allora. E adesso, in quell’oscurità, era come se le rileggesse sulla pagina aperta davanti a lui nella notte. Ma ora comprendeva ciò che leggeva, pronunciando a voce alta una parola dopo l’altra, e capiva che l’incantesimo doveva essere intessuto col suono della voce e il movimento del corpo e delle mani.

Gli altri ragazzi stavano a guardare, senza parlare e senza muoversi ma tremando un po’ perché il grande incantesimo cominciava ad attuarsi. La voce di Ged era ancora sommessa ma mutata, con una profonda risonanza cantilenante, e le parole che pronunciava erano loro ignote. Poi tacque. All’improvviso il vento si levò ruggendo sull’erba. Ged si lasciò cadere in ginocchio e chiamò a voce alta. Poi si buttò in avanti, come per stringere la terra con le braccia protese, e quando si risollevò teneva qualcosa di oscuro tra le mani e le braccia, qualcosa di tanto pesante che lui tremò per lo sforzo di alzarsi in piedi. Il vento caldo gemeva tra l’erba nera e agitata sulla collina. Se anche le stelle brillavano, in quel momento, nessuno le vedeva.


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