Ged era vestito riccamente e stranamente di pellicce e sete e argento; ma gli abiti erano laceri e induriti dal salmastro, e lui era scarno e curvo, con i capelli spioventi intorno al volto sfregiato.

Ogion gli tolse dalle spalle il principesco mantello insozzato, lo condusse nell’alcova dove un tempo dormiva il suo apprendista e lo fece stendere sul pagliericcio, e lo lasciò mormorando un incantesimo di sonno. Non gli aveva detto neppure una parola, sapendo che adesso Ged non possedeva linguaggio umano.

Da ragazzo, come tutti gli altri, Ogion pensava che sarebbe stato un gioco molto divertente assumere per magia la forma preferita — uomo o bestia, albero o nuvola — e giocare a diventare mille esseri. Ma quando era divenuto mago aveva imparato il prezzo del gioco, il pericolo di perdere la propria individualità, di mutare il gioco in verità. Più un uomo rimane a lungo in una forma non sua, e più il pericolo è grande. Ogni apprendista mago impara la storia del mago Bordger di Way, che amava assumere forma di orso e che lo fece sempre più di frequente fino a quando in lui l’orso s’impose e l’uomo si estinse: diventò un orso, e uccise il suo figlioletto nella foresta, e venne cacciato e ucciso. E nessuno sa quanti tra i delfini che balzano nelle acque del mare Interno erano un tempo uomini, uomini saggi, che dimenticarono la loro saggezza e il loro nome nella gioia del mare irrequieto.

Ged aveva assunto forma di falco in preda all’angoscia e al furore, e quando era fuggito da Osskil aveva avuto nella mente un solo pensiero: sfuggire alla pietra e all’ombra, lasciare quelle fredde terre infide e tornare a casa. L’ira e la furia del falco erano come le sue, ed erano diventate le sue, e la sua volontà di volare era divenuta la volontà del falco. Così aveva sorvolato Enlad, scendendo a bere a una polla solitaria nella foresta, ma subito aveva ripreso il volo, spinto dalla paura dell’ombra che l’inseguiva. Aveva attraversato la grande strada marina chiamata Fauci di Enlad ed aveva proseguito verso sudest, con le colline di Oranéa appena visibili sulla sua destra e le colline d’Andrad ancora più indistinte alla sua sinistra, e davanti a lui soltanto il mare; fino a quando, in lontananza, si era levata dalle onde un’onda immutabile che torreggiava sempre più alta, la bianca vetta di Gont. Nel sole e nell’oscurità di quel grande volo aveva portato le ali del falco, e aveva visto con gli occhi del falco, e dimentico dei propri pensieri aveva finito col conoscere soltanto ciò che conosce il falco: la fame, il vento, la rotta da seguire in volo.

Era volato verso il rifugio più adatto. C’erano pochissimi a Roke, e uno soltanto a Gont, che potevano ritrasformarlo in uomo.

Era furioso e taciturno quando si svegliò. Ogion non gli parlò, ma gli offrì carne e acqua e lo lasciò sedere curvo accanto al fuoco, cupo come un grande falco stanco e torvo. Quando venne la notte, Ged dormì. Al terzo mattino si avvicinò al camino, dove il mago sedeva fissando le fiamme, e disse: — Maestro…

—  Benvenuto, ragazzo — replicò Ogion.

—  Sono tornato come me n’ero andato: come uno sciocco — disse il giovane, con voce aspra e impastata. Il mago sorrise lievemente e accennò a Ged di sedersi di fronte a lui, e si accinse a preparare il tè.

Cadeva la neve, la prima dell’inverno, lì sulle pendici inferiori di Gont. Le finestre di Ogion erano ben chiuse, ma loro potevano udire il nevischio umido che cadeva sul tetto e il profondo silenzio della nevicata tutt’intorno alla casa. Restarono seduti a lungo accanto al fuoco, e Ged raccontò al suo vecchio maestro la storia degli anni trascorsi da quando era salpato da Gont a bordo della nave chiamata Ombra. Ogion non fece domande, e quando Ged ebbe terminato restò a lungo in silenzio, calmo, pensieroso. Poi si alzò, e mise sul tavolo pane e formaggio e vino, e mangiarono insieme. Quando ebbero finito ed ebbero rimesso in ordine la stanza, Ogion parlò.

—  Le tue sono cicatrici dolorose, ragazzo — disse.

—  Non ho forza, contro l’ombra — replicò Ged.

Ogion scosse il capo, ma per qualche tempo non disse altro. Poi: — Strano — disse. — Hai avuto forza sufficiente per battere un incantatore nel suo dominio, là a Osskil. Hai avuto forza sufficiente per resistere agli allettamenti e per sventare gli attacchi dei servitori di una Vecchia Potenza della Terra. E a Pendor hai avuto forza sufficiente per opporti a un drago.

—  A Osskil ho avuto fortuna, non forza — replicò Ged, e rabbrividì di nuovo al pensiero del mortale freddo onirico della corte del Terrenon. — Quanto al drago, conoscevo il suo nome. La cosa maligna, l’ombra che mi dà la caccia, non ha nome.

—  Tutte le cose hanno un nome — disse Ogion, con tanta certezza che Ged non osò ripetere ciò che gli aveva detto l’arcimago Gensher, che le forze maligne come quella scatenata da lui erano senza nome. Il drago di Pendor, sì, si era offerto di dirgli il nome dell’ombra, ma lui aveva poca fiducia nella sincerità dell’offerta; e non credeva alla promessa di Serret, che la pietra gli avrebbe detto ciò che gli occorreva sapere.

—  Se l’ombra ha un nome — disse infine, — non credo che me lo dirà…

—  No — fece Ogion. — Ma neppure tu le hai detto il tuo nome. Tuttavia lo conosceva. Nelle brughiere di Osskil ti ha chiamato per nome, il nome che io ti ho dato. È strano, strano…

Riprese a riflettere. Infine Ged disse: — Sono venuto qui a chiederti consiglio, non rifugio. Non porterò l’ombra su di te, e presto giungerà qui se io rimarrò. Una volta tu l’hai scacciata da questa stanza…

—  No: quello era soltanto il preannuncio, l’ombra di un’ombra. Adesso non potrei scacciarla. Questo potresti farlo soltanto tu.

—  Ma io sono impotente, davanti all’ombra. C’è qualche luogo… — La voce di Ged si spense prima di compiere la domanda.

—  Non esiste un rifugio sicuro — disse gentilmente Ogion. — Non trasformarti più, Ged. L’ombra cerca di distruggere il tuo vero essere. Quasi c’è riuscita, spingendoti a diventare un falco. No, non so dove dovresti andare. Eppure ho un’idea di ciò che dovresti fare. Ma è difficile dirtelo.

Il silenzio di Ged era una richiesta della verità, e alla fine Ogion disse: — Devi tornare indietro.

—  Tornare indietro?

—  Se continui così, se continui a fuggire, dovunque andrai incontrerai il pericolo e il male, poiché t’incalza, sceglie la tua strada. Devi essere tu, a scegliere. Devi cercare ciò che ti cerca. Devi dare la caccia al cacciatore.

Ged non disse nulla.

—  Io ti ho dato il nome alla sorgente del fiume Ar — riprese il mago, — un corso d’acqua che scende dalla montagna al mare. Un uomo vorrebbe sapere verso quale fine si avvia, ma non può conoscerla se non ritorna al suo inizio e non racchiude quell’inizio nel proprio essere. Se non vuole essere un fuscello trascinato e travolto dalla corrente, deve essere lo stesso fiume, tutto il fiume, dalla sorgente alla foce. Tu sei ritornato a Gont, sei tornato a me. Ora torna indietro, e cerca la sorgente, e ciò che sta davanti alla sorgente. Là c’è la tua speranza.

—  Là, maestro? — chiese Ged, col terrore nella voce. — Dove? Ogion non rispose.

—  Se torno indietro — disse Ged, dopo che furono trascorsi alcuni istanti, — se come tu dici, do la caccia al cacciatore, credo che quella caccia non sarà lunga. L’ombra desidera soltanto incontrarmi a faccia a faccia. E per due volte l’ha fatto, e per due volte mi ha sconfitto.

—  La terza volta è quella buona — osservò Ogion.

Ged camminò avanti e indietro nella stanza, dal camino alla porta e dalla porta al camino. — E se mi sconfiggerà completamente — disse, contraddicendo forse Ogion e forse se stesso, — s’impadronirà della mia conoscenza e del mio potere e se ne servirà. Ora minaccia me soltanto. Ma se entra in me, se s’impossessa di me, compirà grandi mali per mio mezzo.

—  È vero. Se ti sconfiggerà.

—  Eppure, se fuggirò ancora, sicuramente mi troverà… E tutta la mia forza si esaurirà nella fuga. — Ged continuò a camminare avanti e indietro per un po’, e poi si girò all’improvviso e inginocchiandosi davanti al mago disse: — Ho studiato con grandi maghi e ho vissuto nell’isola dei Saggi, ma tu sei il mio vero maestro. — Parlava con affetto, e con una gioia malinconica.


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