—  Dicono: Le regole cambiano, negli stretti.

—  Sì, è un detto veritiero, posso assicurartelo. Ci sono incantesimi efficaci che ho appreso a Roke e che qui non hanno potere o vanno a rovescio; e ci sono anche incantesimi compiuti qui che su Roke non ho mai imparato. Ogni terra ha i suoi poteri, e più ci si allontana dalle terre interne e meno si può sapere di quei poteri e del modo di dominarli. Ma non credo che sia soltanto questo, a operare il cambiamento nell’ombra.

—  Neppure io, lo credo. Penso che, quando ho smesso di fuggire e ho preso a darle la caccia, il volgersi della mia volontà le abbia dato forma, anche se lo stesso atto le ha impedito di sottrarmi la forza. Tutti i miei atti hanno un’eco nell’ombra: è la mia creatura.

—  A Osskil ti ha chiamato per nome, e così ha arrestato ogni magia che avresti potuto usare per contrastarla. Perché non l’ha fatto ancora nelle Mani?

—  Non so. Forse trae la forza di parlare solo dalla mia debolezza. Parla quasi con la mia lingua: infatti, come poteva sapere il mio nome? Come lo conosceva? Mi sono logorato il cervello su tutti i mari, da quando ho lasciato Gont, e non riesco a trovare la risposta. Forse non può parlare nella sua forma o assenza di forma, ma soltanto con una lingua presa a prestito, come gebbeth. Non so.

—  Allora dovrai guardarti dall’incontrarla una seconda volta in forma di gebbeth.

—  Credo — replicò Ged, tendendo le mani verso le rosse braci, mentre un gelo interiore lo invadeva, — credo che non l’incontrerò più così. Adesso è legata a me come io sono legato a lei. Non può liberarsi da me fino al punto d’impadronirsi di un altro uomo e di svuotarlo della volontà e dell’essere, come ha fatto con Skiorh. Può invasare me. Se mai m’indebolirò di nuovo, e cercherò di sfuggirle, di spezzare il legame, m’invaserà. Eppure, quando l’ho afferrata con tutte le mie forze, è divenuta vapore e mi è sfuggita… E lo farà ancora: non può fuggire veramente, perché io posso sempre ritrovarla. Sono legato a quella cosa immonda e crudele, e lo sarò per sempre, a meno di apprendere la parola che la domina: il suo nome.

Pensosamente, il suo amico chiese: — Ci sono nomi, nei reami tenebrosi?

—  Gensher, l’arcimago, diceva che non ci sono. Il mio maestro Ogion la pensa diversamente.

—  Infinite sono le discussioni dei maghi - citò Veccia, con un sorriso un po’ cupo.

—  Colei che serviva la Vecchia Potenza a Osskil giurava che la pietra mi avrebbe detto il nome dell’ombra: ma questo non conta molto. Tuttavia c’è stato anche un drago, che si è offerto di barattare quel nome col suo, per liberarsi di me; e io ho pensato che forse i draghi sanno ciò di cui i maghi si limitano a discutere.

—  Lo sanno, ma non sono benevoli. Che drago è? Non mi hai detto che hai parlato con i draghi, dopo l’ultima volta che ti ho visto.

Quella notte conversarono fino a tarda ora, e sebbene ritornassero sempre sull’amara sorte di Ged la gioia di ritrovarsi vinse tutto: perché l’affetto tra loro era forte e saldo, non sminuito dal tempo e dagli eventi. La mattina dopo, Ged si svegliò sotto il tetto dell’amico e mentre era ancora insonnolito provò un senso di benessere, come se fosse in un luogo completamente difeso dal male. Per tutto il giorno un po’ di quella pace sognante rimase nei suoi pensieri: e lui l’accettò, non come un buon auspicio ma come un dono. Gli sembrava probabile che, lasciando quella casa, avrebbe lasciato il suo ultimo rifugio: perciò, fino a quando fosse durato quel breve sogno, ne sarebbe stato felice.

Poiché aveva affari da sbrigare prima di lasciare Iffish, Veccia andò ad altri villaggi dell’isola in compagnia del ragazzo che lo serviva come apprendista incantatore. Ged rimase con Millefoglie e suo fratello, Gazzamarina, che per età era tra lei e Veccia. Sembrava solo un ragazzo, perché non aveva il dono del potere magico; e non era mai stato altrove che a Iffish, Tok e Holp, e la sua vita era facile e tranquilla. Ged l’osservava con stupore e un po’ d’invidia, e Gazzamarina guardava lui con gli stessi sentimenti: a ognuno di loro sembrava strano che l’altro fosse così diverso, eppure avevano la stessa età, diciannove anni. Ged si stupiva che uno che aveva vissuto diciannove anni potesse essere tanto spensierato. Mentre ammirava il bel volto allegro di Gazzamarina si sentiva troppo dinoccolato e angoloso, e non immaginava che il ragazzo gli invidiava perfino le cicatrici che gli sfregiavano il volto e pensava che fossero i segni lasciati dalle unghie di un drago, le rune e i segni di un eroe.

I due giovani, perciò, erano piuttosto timidi l’uno con l’altro; ma ben presto Millefoglie perse ogni timore di Ged, poiché era la padrona di casa. Ged era molto gentile con lei, che lo tempestava di domande perché Veccia, diceva, non le raccontava mai niente. In quei due giorni fu indaffaratissima a preparare focacce secche di grano per il viaggio e a confezionare pacchi di pesce e di carne secca e di altre provviste da caricare sulla loro barca, fino a quando Ged le disse di smettere perché non aveva intenzione di arrivare fino a Selidor senza scalo.

—  Dov’è Selidor?

—  Lontanissimo, nello stretto Occidentale, dove i draghi sono frequenti come i topi.

—  Allora è meglio restare a oriente, perché i nostri draghi sono piccoli come topi. Ecco la tua carne, allora: sei sicuro che basti? Senti, non capisco: tu e mio fratello siete entrambi potenti maghi, e agitate la mano e mormorate qualcosa e tutto è fatto. Perché soffrite la fame, allora? Quando viene l’ora di cena, in mare, perché non dite «Sformato di carne!» e lo sformato non appare per farsi mangiare?

—  Be’, potremmo farlo. Ma non ci teniamo molto a mangiare le nostre parole, come dicono. Sformato di carne sono soltanto parole, dopotutto… Possiamo renderlo profumato, e saporito, e perfino capace di saziare, ma rimane fatto di parole. Inganna lo stomaco e non dona forza all’affamato.

—  I maghi, allora, non sono cuochi — disse Gazzamarina, che sedeva di fronte a Ged sul focolare intagliando un coperchio da cofanetto in ottimo legno: era intagliatore, sebbene non fosse troppo zelante nel suo mestiere.

—  E i cuochi non sono maghi, purtroppo — replicò Millefoglie, inginocchiandosi per vedere se l’ultima infornata di focacce che cuoceva sui mattoni del focolare prendeva colore. — Ma ancora non capisco, Sparviero. Ho visto mio fratello, e perfino il suo apprendista, far luce in un luogo buio dicendo soltanto una parola: e la luce risplende, è fulgida, e non è una parola ma una luce che rischiara la strada.

—  Sì — fece Ged. — La luce è potere. Un grande potere, grazie al quale noi esistiamo, ma che esiste al di là delle nostre esigenze, in se stesso. La luce del sole e delle stelle è tempo, e il tempo è luce. Nella luce del sole, nei giorni e negli anni, c’è la vita. In un luogo buio la vita può chiamare la luce, nominandola. Ma di solito, quando vedi un mago nominare o chiamare qualcosa perché appaia, non è lo stesso: non fa appello a un potere più grande di lui, e ciò che appare è soltanto illusione. Chiamare qualcosa che non c’è, chiamarla dicendone il vero nome, è una grande arte, che non si deve usare alla leggera. Non per soddisfare la fame. Millefoglie, il tuo piccolo drago ha rubato una focaccia.

Millefoglie aveva ascoltato così attenta, fissando Ged, che non aveva visto l’harrekki sgattaiolare giù dal gancio del paiolo dove stava al calduccio e afferrare una focaccia più grossa di lui. La ragazza prese sulle ginocchia l’esserino scaglioso e l’imboccò, riflettendo su ciò che le aveva detto Ged.

—  Quindi non evocheresti un vero sformato di carne senza turbare ciò di cui parla sempre mio fratello… Ho dimenticato come si chiama…

—  L’equilibrio — disse Ged, concisamente, perché lei era molto seria.

—  Sì. Ma quando hai fatto naufragio sei partito con una barca costruita quasi interamente d’incantesimi, e non imbarcava acqua. Era illusione?


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