Duny si sollevò lentamente a sedere e si guardò intorno. Dopo un po’ parlò, e gli ritornarono la forza e la fame. Gli diedero qualcosa da bere e da mangiare e lui tornò a sdraiarsi, continuando a scrutare lo sconosciuto con occhi cupi e stupiti.
Il fabbro disse al forestiero: — Tu non sei un uomo comune.
— Neppure questo ragazzo diventerà un uomo comune — replicò l’altro. — La storia delle sue gesta con la nebbia è giunta a Re Albi, che è la mia patria. Sono venuto qui per dargli il suo nome, se è vero (come dicono) che non ha ancora compiuto il passaggio all’età adulta.
La strega bisbigliò al fabbro: — Fratello, questo dev’essere sicuramente il mago di Re Albi, Ogion il Taciturno, colui che domò il terremoto…
— Signore — disse il fabbro, che non era disposto a lasciarsi intimorire da un nome famoso, — mio figlio compirà i tredici anni il mese prossimo, ma pensavamo di tenere il suo rito del passaggio alla festa del solstizio quest’inverno.
— Fate che abbia il nome al più presto possibile — replicò il mago, — perché ha bisogno del suo nome. Io ho altre cose da fare, ora, ma tornerò qui per il giorno che avrai scelto. Se lo riterrai opportuno, quando me ne andrò lo condurrò con me. E se si dimostrerà idoneo lo terrò come apprendista, o farò sì che venga istruito in modo confacente ai suoi doni. Perché è pericoloso tenere nell’oscurità la mente di un mago nato.
Ogion parlava con molta gentilezza ma in tono sicuro, e perfino l’ostinato fabbro assentì a tutto ciò che diceva.
Il giorno in cui il ragazzo compì i tredici anni, un giorno nel primo splendore dell’autunno, quando tutte le foglie coloratissime sono ancora sugli alberi, Ogion ritornò al villaggio dai suoi vagabondaggi oltre la montagna di Gont, e si tenne la cerimonia del passaggio. La strega tolse al ragazzo il nome di Duny, il nome che sua madre gli aveva dato alla nascita. Senza nome e nudo, Duny s’immerse nelle fredde fonti dell’Ar, che scaturisce tra le rocce, sotto gli alti strapiombi. Quando entrò in acqua, alcune nubi passarono davanti al sole e grandi ombre scivolarono mescolandosi sull’acqua della polla. Il ragazzo l’attraversò fino all’altra sponda, rabbrividendo di freddo ma camminando lento ed eretto come doveva in quell’acqua gelida e viva. E quando giunse a riva, Ogion, che l’attendeva, tese la mano e stringendo il braccio del ragazzo gli bisbigliò il suo vero nome: Ged.
Così Ged ricevette il suo nome da un grande esperto nell’uso del potere.
La festa non era finita, e tutti gli abitanti del villaggio si stavano sollazzando tra l’abbondanza di cibi e di birra, e un cantore venuto dal fondo della valle cantava Le gesta dei signori dei draghi, quando il mago disse sottovoce a Ged: — Vieni, ragazzo. Di’ addio alla tua gente e lasciala al suo banchetto.
Ged prese tutto quello che poteva portare con sé, il coltello di ottimo bronzo che gli aveva forgiato suo padre, e una giubba di pelle che la vedova del conciatore aveva tagliato su misura per lui, e un bastone d’ontano che sua zia aveva incantato per lui: questo era tutto ciò che possedeva, oltre alla camicia e alle brache. Disse addio a tutti, tutti coloro che conosceva al mondo, e si voltò a guardare il villaggio annidato sotto gli strapiombi, sopra le sorgenti del fiume. Poi si avviò con il suo nuovo maestro tra le foreste scoscese del fianco della montagna, tra le foglie e le ombre dell’autunno luminoso.
L’OMBRA
Ged aveva pensato che l’apprendista di un grande mago dovesse avere subito accesso ai misteri e al dominio del potere. Avrebbe compreso il linguaggio degli animali e quello delle foglie della foresta, pensava, e avrebbe deviato i venti con la sua parola, e avrebbe imparato a mutarsi nelle forme che preferiva. Forse lui e il suo maestro avrebbero corso come cervi, o sarebbero volati a Re Albi oltre la montagna su ali d’aquila.
Ma non fu così. Vagarono, dapprima giù nella valle e poi a poco a poco verso sudovest, girando intorno alla montagna, facendosi ospitare nei piccoli villaggi o passando le notti all’aperto, come poveri incantatori itineranti, o stagnini, o mendicanti. Non penetrarono in regni misteriosi. Non accadde nulla. Il bastone di quercia del mago, che Ged aveva adocchiato all’inizio con ansia timorosa, non era altro che un robusto bastone da viandante. Passarono tre giorni, e poi quattro, e Ogion non aveva ancora pronunciato un solo incantesimo e non gli aveva insegnato un solo nome, una sola formula magica, un solo sortilegio.
Sebbene taciturno, era un uomo così mite e calmo che ben presto Ged non ebbe più paura di lui; e dopo un altro paio di giorni si fece abbastanza ardito da chiedergli: — Quando incomincerà il mio apprendistato, signore?
— È già cominciato — rispose Ogion.
Ci fu un silenzio, come se Ged si trattenesse dal dire qualcosa. Poi lo disse: — Ma non ho imparato nulla.
— Perché non hai scoperto ciò che sto insegnando — replicò il mago, proseguendo con quel suo passo lungo e regolare per la loro strada, che era l’alto passo tra Ovark e Wiss. Era un uomo dalla carnagione scura, come quasi tutti quelli di Gont, una carnagione di rame scuro; grigio di capelli, scarno e solido come un cane da caccia, instancabile. Parlava di rado, mangiava poco, e dormiva anche meno. Aveva occhi e orecchi acutissimi, e spesso aveva l’espressione di chi sta in ascolto.
Ged non replicò. Non è sempre facile replicare a un mago.
— Tu vuoi operare incantesimi — disse dopo un po’ Ogion, continuando a camminare. — Hai attinto troppa acqua da quel pozzo. Aspetta. Essere uomini è pazienza. La maestria è pazienza nove volte. Cos’è quell’erba accanto al sentiero?
— Fiordipaglia.
— E quella?
— Non lo so.
— Quadrifoglio, la chiamano. — Ogion s’era fermato, col puntale di rame del bastone accanto all’erba; e Ged osservò attentamente la pianta, e ne staccò un baccello secco, e finalmente chiese, poiché Ogion non aveva aggiunto altro: — A cosa serve, maestro?
— A niente, per quello che ne so io.
Ged conservò il baccello per un tratto di strada, quando proseguirono, e poi lo gettò via.
— Quando conoscerai il quadrifoglio in tutte le sue stagioni, radici e foglie e fiori e semi, alla vista e all’odore, allora potrai imparare il suo vero nome, conoscendo il suo essere: e questo è più del suo uso. Dopotutto, che utilità hai tu? O io stesso? La montagna di Gont è utile? O il mare aperto? — Ogion proseguì per circa mezzo miglio, poi disse: — Per udire, bisogna tacere.
Il ragazzo aggrottò la fronte. Non gli piaceva fare la figura dello sciocco. Dominò il risentimento e l’impazienza e tentò di essere ubbidiente, in modo che Ogion acconsentisse finalmente a insegnargli qualcosa. Perché lui smaniava dalla voglia d’imparare, di acquisire poteri. Ma cominciava ad avere l’impressione che avrebbe potuto imparare di più andando in giro in compagnia di un qualunque raccoglitore d’erbe o incantatore di villaggio; e mentre aggiravano la montagna verso occidente, addentrandosi nelle solitarie foreste oltre Wiss, si chiese sempre più spesso dove fossero la grandezza e la magia di quel gran mago Ogion. Quando pioveva, Ogion non pronunciava neppure l’incantesimo che tutti i maghi della pioggia conoscono, per scacciare il temporale. In una terra dove gli incantatori sono numerosi, come Gont o le Enlades, potete vedere una nube gonfia di pioggia che procede lentamente da una parte all’altra, da un luogo all’altro, quando un incantesimo la scaccia verso un altro incantesimo fino a quando viene scagliata sul mare, dove può piovere in pace. Ma Ogion lasciava che la pioggia cadesse dove voleva. Trovava un grosso abete e si sdraiava sotto i suoi rami. Ged si rannicchiava tra gli arbusti sgocciolanti, bagnato e incupito, e si domandava a cosa servisse avere il potere se si era troppo saggi per usarlo, e si rammaricava di non essere diventato apprendista di quel vecchio mago della pioggia, perché allora, almeno, avrebbe dormito all’asciutto. Non esprimeva a voce alta i suoi pensieri. Non diceva una parola. Il suo maestro sorrideva, e si addormentava sotto la pioggia.