— A me no — dichiarò Veccia, con un sorriso. — Dammi la terra e gli abitanti della terra: il mare nel suo letto e io nel mio.
— Avrei voluto vedere tutte le città dell’arcipelago — disse Ged mentre reggeva la cima della vela e guardava la grigia desolazione davanti a loro. — Havnor al cuore del mondo, e Éa dove sono nati i miti, e Shelieth delle Fontane, su Way; tutte le città e le grandi terre. E le piccole terre, le strane terre degli stretti esterni… Anche quelle. Veleggiare lungo la rotta dei draghi, lontano a occidente. Oppure navigare a nord, tra le banchise di ghiaccio, fino alla Terra di Hogen. Alcuni dicono che è una terra più grande di tutto l’arcipelago, e altri affermano che è formata soltanto da scogli e da rocce coperte di ghiaccio. Non lo sa nessuno. Mi piacerebbe vedere le balene dei mari settentrionali… Ma non posso. Devo andare dove sono costretto ad andare, e a voltare le spalle alle spiagge luminose. Ho avuto troppa fretta, e ora non ho più tempo. Ho dato tutta la luce del sole e le città e le terre lontane per una manciata di potere, per un’ombra, per le tenebre. — E così, come usano i maghi nati, Ged trasformò la sua paura e il suo rimpianto in un canto, un breve lamento, che non era soltanto per lui; e il suo amico, rispondendo, pronunciò le parole dell’eroe, dalle Gesta di Erreth-Akbe: - Oh, possa io vedere ancora una volta il fulgido focolare della terra, le bianche torri di Havnor…
Così proseguirono sulla loro rotta sopra le immense acque abbandonate. Quel giorno videro soltanto un branco di argentei panny che nuotavano verso il sud; ma non c’era mai un delfino che balzava, e nella grigia aria non c’era il volo di un gabbiano o di una gazza marina o di una rondine marina. Quando l’oriente si oscurò e l’occidente divenne rosseggiante, Veccia prese il cibo e lo divise e disse: — È l’ultima birra. Bevo alla salute di colei che ha pensato a mettere il bariletto a bordo per uomini assetati e infreddoliti: mia sorella Millefoglie.
A quelle parole, Ged abbandonò i suoi tetri pensieri e smise di scrutare il mare, e brindò a Millefoglie forse con slancio ancor più grande di Veccia. Il pensiero di lei riportò alla sua mente la saggia e infantile dolcezza della ragazza. Era diversa da tutti coloro che conosceva. (Quale ragazza aveva mai conosciuto? Ma a questo non pensava mai.) — È come un pesciolino che nuota in un ruscello limpido — disse. — È indifesa, eppure non puoi afferrarla.
Veccia lo guardò sorridendo. — Tu sei un mago nato — dichiarò. — Il suo vero nome è Kest. — Nella Vecchia Favella, kest significa pesciolino, come Ged ben sapeva; e questo allietò il suo cuore. Ma dopo qualche istante mormorò: — Forse non avresti dovuto dirmi il suo nome.
Ma Veccia, che non l’aveva fatto alla leggera, replicò: — Il suo nome è al sicuro, in tua custodia, come lo è il mio. E poi, tu lo sapevi senza che te lo rivelassi…
Il rosseggiare cadde in cenere a occidente, e il grigio-cenere divenne nero. Il mare e il cielo erano completamente bui. Ged si stese sul fondo della barca per dormire, avvolto nel mantello di lana e di pelliccia. Veccia, stringendo la cima della vela, cantò sottovoce qualche passo delle Gesta di Enlad, là dove il canto narra che il mago Morred il Bianco lasciò Havnor sulla sua lunga nave senza remi e giungendo all’isola di Soléa vide Elfarran nel frutteto, in primavera. Ged si addormentò prima che il canto giungesse alla dolorosa conclusione del loro amore, la morte di Morred, la rovina di Enlad, i frutteti di Soléa devastati dalle immense e rabbiose onde del mare. Verso mezzanotte si svegliò, e fece il turno di guardia mentre Veccia dormiva. La piccola imbarcazione correva veloce sul mare convulso, fuggendo dal forte vento che spirava nella sua vela e volando ciecamente nella notte. Ma le nubi si erano squarciate, e prima dell’alba l’esile luna, brillando tra i nembi orlati di bruno, gettò sul mare una luce fioca.
— La luna sta diminuendo — mormorò Veccia, svegliatosi all’alba, quando per un po’ il vento freddo cadde. Ged alzò lo sguardo verso la bianca falce sulle pallide acque orientali, ma non disse nulla. Il novilunio che segue il solstizio d’inverno viene chiamato aratura, ed è il polo opposto dei giorni della luna e della lunga danza in estate. È un tempo di sventura per i viaggiatori e per gli infermi: durante l’aratura ai bambini non viene dato il loro vero nome, e non si cantano le Gesta, e non si affilano le spade né gli utensili, e non si fanno giuramenti. È l’asse tenebroso dell’anno, quando tutto ciò che si fa è malfatto.
Avevano lasciato Soders da tre giorni quando, seguendo gli uccelli marini e le alghe strappate alla spiaggia, giunsero a Pelimer, un’isoletta aggobbita sul grigio mare agitato. La popolazione parlava hardese, ma a modo suo, strano perfino per Veccia, I due giovani scesero a riva per prendere acqua dolce e per avere una tregua dal mare; e dapprima furono ben accolti, con meraviglia e chiasso. C’era un incantatore nella città principale dell’isola, ma era pazzo. Parlava solo del grande serpente che divorava le fondamenta di Pelimer, che presto sarebbe andata alla deriva come una barca staccata dagli ormeggi e sarebbe scivolata oltre l’orlo del mondo. Dapprima accolse cerimoniosamente i due giovani maghi, ma mentre parlava del serpente cominciò a guardare in tralice Ged; e poi cominciò a inveire contro di loro sulla via, accusandoli di essere spie e servitori del serpente marino. Da quel momento i pelimeriani presero a guardarli severamente, perché sebbene fosse pazzo era pur sempre il loro incantatore. Perciò Ged e Veccia non si trattennero a lungo, ma ripartirono prima del cader della notte dirigendosi sempre verso sudest.
In quei giorni e in quelle notti di navigazione Ged non parlò mai dell’ombra, né direttamente della propria ricerca; e la cosa più vicina a una domanda che Veccia gli rivolse fu (mentre seguivano la stessa rotta, sempre più lontano dalle terre conosciute di Earthsea): — Sei sicuro? — E Ged si limitò a rispondere: — Il ferro è sicuro del luogo dov’è la calamita? — Veccia annuì, e proseguirono, e non dissero altro. Ma di tanto in tanto parlavano delle arti e degli strumenti che i maghi del tempo antico avevano usato per scoprire il nome segreto di poteri e esseri terribili: come Nereger di Paln aveva appreso il nome del Mago Nero ascoltando i dialoghi dei draghi, e come Morred aveva visto il nome del suo nemico scritto dalle gocce di pioggia sulla polvere del campo di battaglia, nelle piane di Enlad. Parlarono d’incantesimi di ritrovamento, e d’invocazioni, e delle domande rispondibili che solo il maestro degli schemi di Roke può formulare. Ma spesso Ged finiva col mormorare parole che Ogion gli aveva detto sul dosso della montagna di Gont, in un autunno lontano: — Per udire, bisogna tacere… — E ammutoliva, e rifletteva, ora dopo ora, sempre scrutando il mare davanti alla prua della barca. Talvolta Veccia aveva la sensazione che il suo amico vedesse, oltre le onde e le miglia e i giorni grigi che dovevano ancora venire, la cosa che loro seguivano e la tenebrosa fine del loro viaggio.
Passarono tra Kornay e Gosk con un tempo pessimo, senza vedere nessuna delle due isole nella nebbia e nella pioggia; e compresero di averle superate solo il giorno seguente, quando videro davanti a sé un’isola di scogliere turrite su cui i gabbiani volteggiavano in grandi stormi con un clamore che si udiva lontano sul mare. Veccia disse: — Quella dev’essere Astowell, a giudicare dall’aspetto. L’Ultima Terra. A est e a sud, le carte nautiche sono vuote.
— Eppure coloro che vivono là possono conoscere terre più lontane — replicò Ged.
— Perché dici questo? — chiese Veccia, dato che Ged aveva parlato in tono inquieto; e anche la risposta a quella domanda fu esitante e strana. — Non là — disse Ged guardando Astowell, e più oltre. — Non là. Non sul mare, ma sulla terraferma: quale terra? Davanti alle sorgenti del mare aperto, oltre le fonti, dietro le porte della luce del giorno…