Si guardò in giro.
Montagne spoglie e aguzze si levavano intorno a lui in un cielo gelido punteggiato di stelle crudeli, stelle che non figuravano in nessuna carta celeste del multiverso. Ma proprio in mezzo a loro c’era un malevolo disco rosso. Scuotivento rabbrividì e distolse lo sguardo. Davanti a lui il terreno declinava ripido e il vento sussurrava tra le rocce spaccate dal gelo.
Sussurrava davvero. Mentre turbini grigi gli afferravano la tunica e gli tiravano i capelli, a Scuotivento parve udire delle voci, deboli e lontane, che dicevano frasi come: "Sei sicuro che nello stufato ci fossero i funghi? Mi sento un po’…" e "Se ti sporgi da qui c’è una bella vista…" e "Non fare storie, è solo un graffio…" e "Guarda dove punti l’arco, hai quasi…" e così via.
Il mago andava barcollando giù per il pendio, tappandosi le orecchie con le mani, finché non contemplò uno scenario che a pochissimi uomini viventi è dato vedere.
Il terreno si abbassava all’improvviso fino a diventare un’ampia gola larga oltre un chilometro, nella quale soffiava, in un vasto bisbiglio riecheggiante, il vento delle anime dei morti. Sembrava come se il Disco stesso stesse respirando. Ma sopra la gola profonda si levava uno stretto sperone roccioso che terminava in un pianoro del diametro di una quarantina di metri.
Lassù c’era un giardino, con orti e aiuole fiorite e un piccolo cottage nero.
Un sentierino conduceva in cima.
Scuotivento si voltò a guardare: la lucente linea azzurra era ancora lì.
E così pure il Bagaglio.
Accovacciato sul sentiero, che lo osservava.
Scuotivento non era mai andato d’accordo con il Bagaglio, che gli aveva sempre dato l’impressione di disapprovarlo. Ma almeno per quella volta, non lo fissava minaccioso. Il suo era piuttosto uno sguardo patetico, come quello di un cane che, tornato a casa dopo essersi piacevolmente rotolato nello sterco di vacca, scoprisse che la famiglia era partita per un altro continente.
— Va bene — gli disse il mago. — Vieni qui.
Il Bagaglio allungò le gambette e lo seguì su per il sentiero.
Scuotivento si era immaginato di trovare il giardino pieno di fiori appassiti. Invece era ben tenuto e chiaramente era stato piantato da qualcuno amante dei colori, sempre che questi fossero viola scuro, nero come la notte o bianco come un sudario. Enormi gigli profumavano l’aria. C’era una meridiana con uno gnomone piantato nel mezzo di un prato falciato di fresco.
Scuotivento, con il Bagaglio sempre alle calcagna, percorse un sentiero di schegge di marmo che lo condusse alla parte posteriore del cottage, e aprì una porta.
Al di sopra della sacchetta per foraggio sospesa al loro muso, lo fissavano quattro cavalli. Bestie in carne e ossa, tra le meglio accudite che il mago avesse mai visto. Un grosso animale bianco aveva un box tutto per sé e sulla porta erano sospesi finimenti neri e d’argento. Gli altri tre cavalli, legati a una mangiatoia sulla parete di fronte, come se i visitatori fossero appena arrivati, lo guardarono con vaga curiosità animalesca.
Il Bagaglio gli urtò una caviglia. Scuotivento si girò di scatto e sibilò: — Pussa via, tu!
Quello indietreggiò, con aria contrita.
Il mago andò in punta di piedi alla porta in fondo e l’aprì con cautela. Dava su un corridoio lastricato di pietre, che si apriva a sua volta su un vasto ingresso.
Scuotivento avanzò strisciando contro la parete. Dietro a lui il Bagaglio si alzò sulla punta dei piedini e saltellò in avanti nervosamente.
Quanto all’ingresso…
Be’ non era il fatto che fosse notevolmente più grande di quanto l’intero cottage gli fosse sembrato dall’esterno, che turbava Scuotivento. Come andavano le cose in quei giorni, lui si sarebbe fatto una risata sarcastica se gli avessero detto che era impossibile versare due pinte in un boccale da una sola. E non era nemmeno lo stile, cripta primitiva, con una quantità di drappi neri.
Era l’orologio. Molto grande, occupava lo spazio tra due scale di legno semicircolari, coperte da cose scolpite che gli uomini normali vedono soltanto in preda agli effetti di sostanze allucinogene.
L’orologio aveva un pendolo molto lungo. E il pendolo oscillava con un lento tic-tac che faceva arrotare i denti al mago. Era infatti quel genere di ticchettio intenzionale e irritante, deciso a chiarirti senza ombra di dubbio che ogni tic e ogni tac si portava via un altro secondo della tua vita. Quel genere di suono che ti suggeriva esplicitamente che, da qualche parte, in un’ipotetica clessidra, altri granelli di sabbia ti sfuggivano da sotto i piedi.
Inutile dire che sul pendolo il peso era a lama di coltello e affilato come un rasoio.
Scuotivento si sentì battere nelle reni e si voltò arrabbiato.
— Senti, figlio di una valigia, ti ho detto…
Non era il Bagaglio. Era una giovane donna… capelli argentei, occhi argentei, e piuttosto sconcertata.
— Oh! Uhm. Salve! — esclamò il mago.
— Sei vivo? — chiese lei. Aveva una voce che si associa agli ombrelloni da spiaggia, olio abbronzante e bibite ghiacciate.
— Be’, spero — rispose Scuotivento. Si chiedeva se le sue glandole se la spassavano, ovunque fossero. — A volte non ne sono così sicuro. Che cos’è questo posto?
— Questa è la casa della Morte.
— Ah! — Si passò la lingua sulle labbra secche. — Bene, piacere di averti incontrata. Credo che dovrei proseguire…
Lei batté le mani. — Oh, non devi andartene. Non ci capita spesso di avere qui dei vivi. I morti sono così noiosi, non credi?
— Uh, sì — convenne con fervore il mago, con un’occhiata alla porta. — Non molta conversazione, immagino.
— Dicono sempre "Quand’ero vivo…" e "Ai giorni miei si sapeva davvero respirare". — Gli posò sul braccio una piccola mano bianca e gli sorrise. — E poi sono così abitudinari. Per niente divertenti. Così formali.
— Rigidi? — suggerì Scuotivento. Lei lo stava spingendo verso un varco nella parete.
— Assolutamente. Come ti chiami? Io mi chiamo Ysabel.
— Ehm, Scuotivento. Scusami, ma se questa è la casa della Morte, cosa ci fai qui? A me non sembra che tu sia morta.
— Oh, io vivo qui. — Lo fissò con attenzione. — Dico, non sarai venuto a liberare il tuo amore perduto, vero? È una cosa che fa sempre irritare Mammina. Menomale, dice, che lei non dorme mai perché, se lo facesse, sarebbe tenuta sveglia dal calpestio dei giovani eroi che vengono quaggiù per riportare indietro un mucchio di sciocchine, dice.
— È un continuo, vero? — fu il debole commento del mago, mentre camminavano lungo un corridoio tappezzato di nero.
— Tutto il tempo. Per me, è molto romantico. Solo che, quando si lascia questo posto, è molto importante non guardarsi indietro.
— Perché no?
Lei alzò le spalle. — Non lo so. Forse la vista non è molto bella. Tu sei un eroe?
— Uhm, no. Non proprio. Affatto, in realtà. Anzi, anche meno. Sono venuto soltanto in cerca di un mio amico — aggiunse, disperato. — Suppongo che tu non l’abbia visto? Un ometto grasso, chiacchiera un sacco, porta gli occhiali, veste in modo buffo.
Mentre parlava, si rese conto che forse gli era sfuggito qualcosa di vitale importanza. Chiuse gli occhi e tentò di ricordarsi degli ultimi minuti di conversazione. Poi fu come lo colpissero con un sacchetto di sabbia.
— Mammina?
La ragazza abbassò pudicamente gli occhi. — A dire la verità, sono adottata. Lei mi ha trovata quand’ero piccola, dice. Era tutto molto triste. — Si rasserenò. — Ma vieni a conoscerla… questa sera ha degli amici. Sono sicura che la interesserà vederti. Non frequenta molta gente. E in effetti nemmeno io — aggiunse.
— Scusami — disse Scuotivento. — Ho capito bene? Stiamo parlando della Morte, sì? Alta, magra, orbite vuote, abile con la falce?
Lei sospirò. — Sì, il suo aspetto è contro di lei, temo.
Mentre era vero (come già è stato detto) che Scuotivento stava alla magia come una bicicletta a un calabrone, nondimeno conservava un privilegio accordato ai praticanti della sua arte. Cioè che, in punto di morte, la Morte stessa sarebbe andata a reclamarlo (invece d’incaricare del lavoro una minore personificazione antropomorfica mitologica, come succede di solito). In gran parte a causa dell’inefficienza, più volte Scuotivento non era morto al momento giusto. E se c’è una cosa che alla Morte non piace è la mancanza di puntualità.